Endimione dorme. In qualunque versione del mito greco che vede protagonista questo bel giovanotto lui dorme, per trenta, cinquant'anni o forse per l'eternità. Endimione disco invece non fa dormire: dopotutto dall'accoppiata ?Alos-Xabier Iriondo non è che ci si potesse aspettare qualcosa di meno che inquietante, se poi ci aggiungiamo che si ispirano in questi 8 pezzi ai madrigali di Antonin Artaud (uno che da quel che ne so già non era precisamente allegro) il gioco è fatto. Sperimentale fino all'estremo, Endimione è il classico album che non può essere guardato in maniera oggettiva ma solamente soggettiva, quindi le parole che troverete scritte sotto le potete anche buttare nel cesso perchè le mie impressioni saranno sicuramente (o quasi) diverse dalle vostre. Chi me lo fa fare quindi? Boh, probabilmente il masochismo.
Se l'iniziale “”Georges
Gabory” vi fa star male evitate di andare avanti. L'incalzante base
elettronica su cui ?Alos urla inquieta è forse la cosa più
accessibile dell'intero album, e risulta efficace soprattutto quando
a metà brano spunta fuori una chitarra distorta semplice ma
d'impatto che dona ulteriore carica al risultato finale: con
risultati più inquietanti si getta in questo tipo di sperimentazione
anche “Charles Dullin”, più oscura sia come claustrofobicità
sonora sia come violenza vocale, e la dualità sembra permeare anche
altri brani del disco. Prendiamo “Robert Mortier” e “Florent
Fels”: nella prima la voce stranamente sussurrante della cantante
degli OvO è accompagnata da rumorismi minimali in sottofondo, nella
seconda la voce si fa più decisa ed urlata nel finale, mentre in
sottofondo c'è semplicemente il casino più totale, per fortuna a
sprazzi. Quale sia l'utilità di questi due brani nell'economia
generale dell'opera lo ignoro, ma dopotutto ignoro anche per quale
motivo in “Genica Atanasiou” ?Alos vomiti rabbia sul sottofondo
spesso volutamente dissonante di una canzoncina francese riprodotta
da un grammofono. Un po' più di ordine (prendete con le pinze questa
dichiarazione) viene fuori in “Marguerite Jamois”, dove una
chitarra acustica malinconica centellina accordi tristi sui lamenti
funebri ma efficaci della vocalist, che trasmette sofferenza ed
inquietudine soprattutto quando nel finale parte un arpeggio
ossessivo: con le dovute distanze in fatto di suoni e di vocalizzi si
avvicina a questa “struttura” “Simone Dulac”, dove la
chitarra elettrica slide accompagna balbettii assortiti per finire
con un altro arpeggio. A chiudere il quadro generale “Cruel
Restaurant”, che lascia spazio esclusivo ai rumorismi chitarristici
gratuiti e desolanti di Iriondo, e i francesismi al grammofono non
riescono ad evitare che la noia vinca nei quasi 5 minuti del brano
conclusivo.
L'ho ascoltato
attentamente questo album, e svariate volte, perchè a limitarsi al
primo ascolto la maggior parte della gente scapperebbe a gambe levate
anche se abituata a roba pesante o delirante. Alcune invenzioni sono
efficaci, trasmettono sensazioni intense ed un disagio che, se anche
non è la cosa migliore da trasmettere, perlomeno lascia l'impressione di ricevere qualcosa dalle “note” di questa musica.
Altre cose sembrano invece messe lì perchè fare casino è bello, e
se non lo capite non ci possiamo fare niente. Un po' come i film di
David Lynch, che mi immagino girare cose sempre più assurde e senza
senso solo per il gusto di leggersi poi tutte le teorie di
giornalisti e fan su ciò che ha voluto dire con il tal film, ridendo
sotto i baffi conscio che un senso all'opera qualcuno glielo darà
anche se lui non ci ha minimamente pensato. Io un senso a questo
album non so e non voglio trovarlo, ma è meno fastidioso di quello
che immaginavo e in alcuni punti stupisce. In ogni caso dubito che
lo riascolterò, perchè spesso mi sembra che mi/ci prendano per il
culo.
Voto: ◆◆◆◇◇
Label: Brigadisco
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