Manca solo lo scroscio d’un temporale ed il rumore sbeccato di tergicristalli annoiati, ma già cosi questo bel viaggio notturno intrapreso da August Andrews Bondy, ex chitarrista degli americani Verbena, ha il suo bel da fare a cucire sogni e malinconie ai bordi di strade mai vissute e strade da vivere; con “Believers” – terzo atto della sua produzione discografica – il cantautore firma una splendida gemma di songwriting rarefatta e dal groppo in gola, una beatitudine nella solitudine che si perde nelle notti di frontiera, tra occhi disillusi, empori a lungo orario e umanità invisibile, l’America di chi non conta.
La forza della languidezza, il tormento del buio e l’estasi di una “Americana” quasi Celiniana, sono unite a dimostrare un disco eccitato dalla disperazione interiore dentro una stilosa noncuranza per orpelli, ganci e sovrastrutture che potrebbero ostruire la carica atmosferica della tracklist, tutto vive in una povertà sincera e diretta, che è poi la caratteristica dei looners eccellenti, dei crooner sui limits dell’esistenza; dieci tracce che affondano le proprie radici in un immaginario culturale e cinematografico – magari un B-movie sonore di un alternativo Into the wild “Down in the fire”, “Drmz” – che guarda il mondo dal basso e le stelle dall’alto, facendo scempio dell’amore lungo polverose routes che sfregiano deserti e tramonti rosso sangue.
Con i Wilco e barlumi a slow motion di carattere Bad Seeds “Scened from the circus”, “123 Dupuy Street” a fare da retrogusto amaro alla forte ispirazione di Bondy , i procedimenti incantatori delle storie narrate prendono il sopravvento ed il disco si fa man mano cangiante e double faces, alternando stati emozionali di passati post-wave “The heart is willing” a passaggi fugaci – da ladro direbbe il suo amicone di sempre Jay Farrar, leader della band dei Son Volt – nei caldi paraggi Southern della ballata “Surfers king”; dunque un album per tutti, o almeno per chi ha posto nel cuore per un veloce viaggio negli States di Altman, di sola andata, un viaggio ricoperto di quella leggere fuliggine introspettiva che solo questi cavalieri solinghi con chitarra, slide e poc’altro sanno rivelare in tutta la loro magnificenza struggente.
Solitudine che scalda l’ambiente in pochi secondi, come il tex-mex che dondola in “The twist”.
Voto: ◆◆◆◆◇
Label: Fat Opossum
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