I torinesi Movie Star Junkies tornano con un terzo lavoro firmato Outside Inside Records e tratteggiano per noi un'atmosfera cupa e torbida che sembra richiamare quelle storie e quelle leggende metropolitane raccontate dai fratelli maggiori davanti ai fuochi di bivacco per farci salire un brivido lungo la schiena e farci stringere in un solidale abbraccio con la luce mentre dietro di noi tutto è nero.
"Son of the Dust" è infatti un album crepuscolare, una collezione di pezzi blues a tinte fosche impreziosito qua e là da momenti di punk scolorito. Sono storie che ci immergono in un bosco oscuro, ad abbandonare una volta per tutte il campo visivo ed a farci guidare dalla voce ruvida e profonda di Stefano Isaia, che a tratti ricorda quella di Strummer, e che narra per noi di cupi personaggi e loschi affari.
A dipingere lo sfondo di una così fosca esperienza si mescolano con perfetta sincronia solenni cori, chitarre in lento finger picking, organi vecchio stile, una voce cadenzata e alcolica che sembra fatta apposta per rivangare a grandi zollate tutte le storie sepolte e mai raccontate.
I Movie Star Junkies propongono dunque un lavoro che sembra essere un incontro frontale tra l'oscurità senza fine di Nick Cave e lo scanzonato blues psichedelico dei britannici Coral offrendo un ascolto che ha del profondo e che tiene avvinti come un ottimo thriller storico a vicende e soggetti di storie rivelate come un segreto da troppo tempo taciuto.
L'album si apre con "These Woods have Ears" in cui sono gli organi a farla da padrona mettendo in piedi uno scenario che risveglia orecchie sopite come di fronte ad una nuova scoperta, un epilogo da tempo cercato. Le chitarre si mescolano ai cori ed entrambi sembrano rieccheggiare da certe profondità dimenticate.
"The Damage is Done" trasporta le sonorità cupe dalle chitarre alla voce, qui infatti la ritmica incalza i tempi della traccia affidando al cantato le sfumature malinconiche che caratterizzano l'album.
Con "End of the Day" ci si trova di fronte ad una sorta di epica marcia western, polverosa come un regolamento di conti, mentre la traccia di chiusura "How it all Began" regala all'album uno sprazzo di luce soffusa, rallegrando i toni con un tappeto ritmico particolare e accenti squillanti di chitarra in sottofondo.
Ciò che impreziosisce l'intero lavoro sono i cori di Nathalie Naigre, Marie Mourier e Federico Zanatta (Father Murphy): è infatti l'intrigante intreccio di voci di sottofondo a dare a "Son of the Dust" un taglio rugginoso ed epico, una sorta di salto di qualità nell'atmosfera e un contributo importantissimo per la riuscita di un concept così ben definito. Le chitarre si dipanano come gli scenari di un vecchio film, dipingendo gli sfondi a grosse pennellate e la voce al rum di Stefano, marchio di fabbrica della band, permette all'intero lavoro di rimanere profondamente aggrappato all'ascolto restando in testa anche a disco finito.
Un album che sa dunque di buio e storie stantie raccontate fra respiri di whiskey. Un' avventura per coraggiosi tra "foreste che hanno orecchie" in un paesaggio autunnale e decadente che concede rivelazioni e coinvolge l'ascoltatore in confidenze dolci amare e impronunciabili segreti. Un sonoro circolo vizioso, esclusivo e selezionato,solo per gli adepti al buio e gli estimatori della malinconia nei misteri.
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