Punto di partenza: hip-hop.
Destinazione: da definire. Ad un primo ascolto l'esordio discografico
di Soulcè e Teddy Nuvolari lascia un tantino interdetti, forse
perchè solitamente da un disco hip-hop sai grosso modo cosa
aspettarti: beat in quattro quarti che deflagrino i padiglioni
auricolari e metriche stilose che carpiscano l'interesse. Non che
questi elementi siano assenti, ma "Sinfobie" non è
esattamente un disco hip-hop. Almeno, non solo. Al di là delle marcate
influenze soul e jazz di cui questo disco è indubbiamente debitore,
rielaborate con padronanza e stile da Teddy Nuvolari e da una nutrita
presenza di validi musicisti, spicca una chiara vocazione di Soulcè
per la canzone d'autore.
Oltre a numerose tracce più classicamente
hip-hop, trovano infatti posto nell'album brani fiabeschi, altri
onirici, preghiere strampalate, elenchi di buoni auspici, pezzi
romantici e poesie. In questo c'è da rimarcare la perfetta intesa
tra i due autori che per ogni canzone sono riusciti a
trovare una giusta combinazione tra testo e musica. Non che manchino
momenti davvero poco convincenti su entrambi i piani, sia chiaro, ma
"Sinfobie" ha il pregio/difetto di crescere con gli
ascolti. Superato infatti quel primo momento di incertezza al quale
accennavo all'inizio, ci si rende conto che ci viene richiesto di
ascoltare il disco con semplice cuorisità, senza la pretesa di
trovare necessariamente un messaggio da far proprio od un flow da
vincitore di competizioni rap. Di Soulcè sembra trasparire una
sincerità d'animo che se per alcuni può suonare banale, ad altri
trasmette invece un'intimità non trascurabile. Passando in rassegna
alcuni brani, sul versante più propriamente hip-hop spicca
sicuramente la title-track, forte di un irresistibile groove
funk-soul (siamo dalle parti di J Dilla), alla quale spetta di
diritto il compito di rappresentare l'album. E ancora, Colori
prende liberamente spunto dal libro di Carlo Lucarelli "Almost
Blue", romanzo che a sua volta deve il titolo ad uno dei
pezzi più amati di Chet Baker, il probabile 'Dio del Jazz' evocato
poche tracce più in là dallo stesso Soulcè. Araba Scalza è
un'altro pezzo di tutto rispetto, giocato su di un piano quasi
onirico tra malinconia, sensualità e il desiderio di alzarsi in
volo. Cambiando coordinate, colpisce il funk lunare di Figli delle
Statue (vengono in mente Jamiroquai e Plant Life), con i
featuring di Smania Uagliuns e Janahdan ed un testo al limite del
nonsense; il tutto vira poi nella dance di un ritornello che suona a
metà tra omaggio e parodia del tormentone di Alan Sorrenti (Figli
delle Stelle, per l'appunto). Pupazzo di Ruggine è tra i
momenti più bizzarri dell'intero disco, considerando il testo
fiabesco e la musica che lo sostiene: una fanfara ed un ritornello di
voci femminili che sembrano uscite da una radio degli anni 30 o 40.
Quartetto d'archi e pianoforte accrescono invece la visione pacifista
di Giocattoli, brano che soffre forse di una certa ingenuità
ma che, se ascoltato senza pregiudiziali, sa restituirci almeno in
parte la bellezza di un'utopia.
Chiudendo come invece l'album inizia,
Abat-Jour è una sorta di ninna nanna che racconta di desideri
e sogni ad occhi aperti fatti prima di andare a dormire, dei buoni
auspici per la notte, o meglio, per il risveglio. Un'ultima
annotazione è per il buon artwork con le illustrazioni di Antonio
Rom Sortino, in cui Soulcè e Teddy Nuvolari viaggiano attraverso
suggestioni, sogni ed incubi suggeriti dalle canzoni.
Voto: ◆◆◆◆◇
Label: Soulville
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