Indossate un paio di cuffie che vi isolino dal frastuono intorno.
Premere play è d’obbligo, con cautela per i cuori con le crepe, come i muri straziati dai terremoti.
Condividetene il dramma e prendetene la poesia.
È questo che il nuovo lavoro di Apash 2012, Blacker, suggerisce.
L’intimo struggimento cantato in dieci brani.
Mezz’ora (appena) di vita per raccontare una vita.
È la voce di Fabio Armando Patini a guidare l’ascolto, proposto da questi nomadi del suono, che, con l’umiltà più dolce e delicata, si confida un po’ agli accordi di chitarra, un po’ alle pareti d’una cameretta forse troppo stretta, un po’ a sé stesso.
Incipit a capella, a “profanare” il canto di chiesa “Holy”, in una versione pietrificante e originale quasi inattesa, a cui segue un racconto, una sorta di presa di coscienza del tempo andato, dei colpi subiti in pieno petto, delle strade percorse senza giungere ad una meta. Nella dispersione delle cose non illuminate dal sole che non splende c’è “It's your tourn” , dove la sconfitta non è la rassegnazione di un hikikomori deluso, è piuttosto una tappa d’un corridore stanco e con le scarpe lacerate, consapevole che l’immensità del mondo non finisce col dolore. E nemmeno la bellezza, che è nei sentimenti, quelli veri.
Ed è con la quasi spensierata “Happiness” che le tonalità si fanno “radiofoniche”, distese, e nonostante quel “sadness” irrompa austero a metà brano, la voglia di felicità e la pazienza per ottenerla, rendono tutta l’ingenuità del desiderio puro d’un’esistenza meno grave.
Un amore a tratti universale, a tratti privatissimo con la sua solitudine ed incomprensione, è quello che si dispiega nella trama di questo flusso di pensieri, mentre le dita ticchettano sul tavolo alla ricerca della soluzione, tra ballate e capricciosi “esperimenti elettronici” ("Rosemary Fields Whatever" , "All In").
I sentimenti bui sono sani, sinceri, e nella loro oscurità reali più che mai.
“Nobody wants to be alone tonight, gotta stay together”. In “Jealousy” il lamento è rabbia discreta che consuma il tempo e porta alla pazzia, la stessa che nella ruvida “Alcatraz” si preannuncia una fuga che è anche, un po’, una rincorsa. Colpa dell’abitudine, abitudine a star male, a guardarsi negli occhi senza dirsi le parole che vorremmo. “In Routine” c’è la constatazione del disorientamento, della dispersione, dei ritorni, delle dipartite; ma il momento di “andare”arriva, per focalizzarsi su tutto il resto, sul nuovo, sull’imprevisto, su quello che s’era tralasciato".
“Paid attention to your needs”. Tutto quello che c’è da fare è dare voce ai proprio bisogni, e non soffocarli solo perché qualcun altro l’ha fatto.
Non è certo un ascolto da “posta del cuore” o poco impegnativo, Blacker. Tutt’il contrario.
L’inadeguatezza e le insicurezze vengono a galla nel mare di lacrime e bisogna affrontarle con navi sicure e robuste. Se tra i vostri dischi ci sono “Figure 8 “ ed “Ellioth Smith” dell’omonimo cantautore statunitense, allora sarà tutto più affrontabile.
E qualora siate impreparati, la musica salva, sempre.
L’inadeguatezza e le insicurezze vengono a galla nel mare di lacrime e bisogna affrontarle con navi sicure e robuste. Se tra i vostri dischi ci sono “Figure 8 “ ed “Ellioth Smith” dell’omonimo cantautore statunitense, allora sarà tutto più affrontabile.
E qualora siate impreparati, la musica salva, sempre.
Voto: ◆◆◆◆◆
Label: Autoproduzione
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