«David Bowie era il nostro idolo
solitario, il più stupendo di tutti. La sua musica era la migliore. Tutti
volevano assomigliare a lui».
Avevi ragione, Christiane: David
Bowie è l’indiscusso Maestro che ha insegnato a generazioni intere il grande
inganno del narcisismo, guidando come un messia elegantemente reietto schiere
di alienati imbottiti di droghe e coperti di lustrini da quattro soldi. Sembrò
un gesto di umiltà e ritegno stupefacenti, quasi un sintomo di umanità
malcelata, il ritiro discreto dalle scene; ma il richiamo dell’arte quale
antidoto al terrore dell’effimero si è rivelato, ancora una volta,
irresistibile.
A dieci anni dal
trascurabilissimo Reality, le note che accompagnano il ritorno sotto i riflettori
dell’eterna Primadonna appartengono al pigro e felpato singolo Where Are We
Now?: la fascinosa prova vocale e gli intriganti, nostalgici acquerelli
berlinesi non bastano a evitare che l’iniziale eccitazione si stemperi in un
inesorabile effetto soporifero. Questa interminabile litania è tuttavia un
preludio fuorviante al vigore sonoro ed espressivo dell’opera, significativo
archetipo della peculiare forma creativa bowieana: come in capolavori di
transizione quali Diamond Dogs e Station to Station, il fondamentale senso di
incompiutezza e frustrazione è articolato e incanalato, con un’operazione di
espressione paradossale ai limiti dello straniamento, in brani di perfetta
conclusività compositiva ed eccezionale accuratezza.
Scelte di ambivalenza strutturale
implicite sin dall’iniziale title-track, che adagia l’albionica lascivia
dell’interpretazione su un energico incalzare chitarristico, per poi
dissolversi nell’inatteso Singspiel di "Dirty Boys". Il minaccioso e sordido
cabaret funge da avanguardia per lo sfrontato erompere di "The Stars (Are Out
Tonight"), secondo singolo rivestito di scintillante decadenza dal fido Tony
Visconti, la cui produzione teatrale e magniloquente si eleva su sature
chitarre ronsoniane. Quella che Bowie stesso definì «nostalgia del futuro», la
costante meditazione della caducità declinata nelle molteplici incarnazioni e
maschere, è esposta ed esibita in quest’opera come consapevolezza del potere di
precorrere il tempo ma insieme, inesorabilmente, trascinarsi alle spalle un
passato. Così, è nel glam-pop di "Valentine’s Day" che Bowie esplicita la
paternità di quella malinconia cool eletta dai Suede a cifra esistenziale ed
estetica, mentre si cimenta con aperture melodiche beatlesiane in "I’d Rather Be
High", prima di scivolare nel corale gospel urbano di "Boss Of Me", sospinta da
fiati notturni.
L’ipertrofia espressiva, forse
alimentata nell’ultimo, defilato decennio, nella sezione centrale del lavoro
include momenti che tradiscono un’ispirazione piuttosto stanca. Ballad melò
("You Feel So Lonely You Could Die") o riff ovvi e abusati ("You Will Set The
World On Fire") sarebbero prevedibilmente caduti sotto la scure di una salutare
operazione di sottrazione e riduzione all’essenziale, che avrebbe consentito
all’affascinante blocco dell’epilogo di portare a compimento la coerenza
complessiva dell’opera.
«Nel preciso istante in cui ti
senti al sicuro, sei morto. Sei finito». Alla soglia dei trent’anni, Bowie già
fronteggiava con vivida lucidità la condanna all’impermanenza, l’estraneità
rispetto al tempo presente e l’impulso a divorare il futuro che sentenziano
inesorabilmente la fine di ogni possibilità di stasi. Got to keep searching and
searching.
Voto: ◆◆◆◆◇
Label: ISO Records
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