Ecco un’altra band che
sembra in tutto e per tutto uscire dai corner
americani tanto è perfetta la prestanza e che invece viene da Milano,
sono i Kalweit And The Spokes con il nuovo album Mulch, un disco (il secondo) che è un insieme di storie agrodolci,
acustico ed elettrico si incrociano in un tutto che si distacca notevolmente
dalla media delle produzioni underground, dodici tracce seducenti e variegate
sia in stile che timbrica, se poi ci vogliamo anche giocare i colori impressi
sopra, è un investimento elaborato di bello su tutti i fronti.
Storie e frame emotivi
sull’alcolismo e su come trasforma il dentro ed il fuori di anime ed umani, ma
anche di come l’alcol riesce – a suo modo – ad estrarre dal profondo
dell’intimo di chi se lo trangugia spesso verità, vissuti e passati altrimenti
mai usciti allo scoperto, mette a galleggio quella dark side umana relegata a
“fondo polveroso” da portarsi dietro di nascosto e come un bagaglio scomodo,
come un peso insopportabile; folk, pop, ballate, pezzi di vetro e arie
respirate attraverso la mente sono i favori d’ascolto di questo ottimo lavoro,
un modo cantautorale di descrivere la vita all’ingiù, attimi e momenti
pregevoli che non disperdono mail le loro venature malinconiche a favore di
un’alterazione commerciale o altre forme ridicole.
Georgeanne
Kalweit alla voce, Mauro
Sansone alla batteria e Giovanni
Calella alla chitarra, creano poetiche e soluzioni di qualità e trasporto,
la loro musica è un insieme di musiche e
che riflettono un plasmabile pathos emotivo, si agganciano dall’apertura
fino alla fine senza quel frenetismo di pragmatica, un fluido raccounteur che
si fa melodia o frontiera per una scarica interiore infinita; è una ricetta
sonora che piace dannatamente, specie quei sentori tex-mex che vibrano in "Liquor Lyles", "Appliance", il caracollare latin carretero di "Barbara Bit The Dust", lo sferragliamento rock che graffia "Hank’s Hour" o il rarefatto pads che
annebbia la psichedelica "Wetutanka",
ma c’è molto altro che passa in questo ascolto, un fiume in piena di parole e
immaginazioni che sciamano libere in una dolcezza indescrivibile, quella
dolcezza a linea d’ombra che divide il cuore, dallo spirito, riunendoli poi nel
finale con una scheggia che sembra un saluto della grande Janis Joplin, un
saluto a chiunque abbia messo - anche
per poco – la testa in questa tracklist dalla grammatura straordinaria, "Fifth Daughter".
Non c’è nulla da aggiungere se non che la grazia
polverosa passa da qui.
Voto: ◆◆◆◇◇
Voto:
Label: Irma Records
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