Sebbene una percentuale
consistente dei miei ascolti sia dedicata a un certo tipo di elettronica,
dimessa e dalle sfumature antiquate, non ho le competenze di settore che mi
consentirebbero di argomentare con piglio tecnico la mia attrazione; anzi è
forse proprio la fondamentale ignoranza, persino delle nozioni più rudimentali,
ad alimentare anni di ricerca nei territori della sperimentazione low-profile.
Ed è appunto il lato B del masterpiece bowieano uno dei precedenti che ho più a
lungo frequentato: il titolo Low
campeggia sull’algido e impassibile profilo dell’uomo che cadde sulla terra, in
un arguto pun visivo che enuncia,
sin dalla copertina, l’intento di contravvenire a ogni presunzione di
perfezione, compiutezza o magniloquenza.
Gli angoscianti paesaggi strumentali
stratificati sui solchi appresero la lezione di raggelante sobrietà e eremitica
ricerca di Neu! e Faust, che oggi sopravvive nelle dieci tracce di HAAS, nuovo
lavoro di Simone Greco sotto le spoglie de Il Cristo Fluorescente.
L’elettronica scarna, scandita con serialità d’automa in gocciolii asettici,
sin dal primo brano "Hauntitled" indossa
l’irresistibile patina demodè che già avevano i pionieristici Silver Apples;
desolate distese nebbiose intervallate da un handclapping androide si
dispiegano in "Wake Up", per
dissolversi negli ultimi secondi in dissonanze discrete; il salto al refrain radioattivo di "Satan is Your Friend" è sulle prime impercettibile, ma è poi capace di
determinare una diversa atmosfera sonora di rigore ossessivo. Le percussioni
sintentiche in "Li Mortacci Vostra"
martellano i campionamenti di squarci quotidiani, di cui ci si appropria non
per denuncia sociale ma per il puro suono straniante dello spoken; la
post-dance di "Strip 666" e "Novantas" traccia un immaginario percorso a ritroso verso i
capannoni industriali della Sheffield dei Cabaret Voltaire, dove il ritmo è più
una minaccia che un sollievo, mentre in "Bringin’ in the Night" disturbi divergenti e scampanii chirurgici si
defilano, per lasciar serpeggiare voci filtrate ai limiti della
riconoscibilità. "Terracina Connection" esordisce apparentemente come l’episodio più destrutturato del disco,
con clangori in lontananza e lampi da videogame, per poi aprirsi in melodie
rarefatte; dopo il tetro rituale da alba post-atomica di "Black Sand", dapprima inquietante poi spietato, il lavoro sembra
mirare alla cifra espressiva dell’annichilimento con "Tour de Trans", la cui trama sonora a grana grossa è trascinata da
un lamento vocale straniato, che progressivamente si spegne in sussurri e
sibili fino a estinguersi in segnali intergalattici.
Voto: ◆◆◆◇◇
Label: Autoprodotto
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