La critica musicale istituzionale
ha selezionato una manciata di vocaboli sulla cui efficacia converge da
decenni, che sembrano avere il potere di descrivere universalmente ore e ore di
musica in poche, ripetute immagini; tra queste, il termine “derivativo”
dovrebbe suggerire l’evidente filiazione della produzione di un artista da
quella di qualcun altro. Io attingo raramente al tradizionale canestro del
gergo musicale, ma nel caso del terzo disco di Nicolas J. Roncea, italiano di
origine francese che scrive in inglese, mi trovo a rimestare pescando proprio
l’aggettivo “derivativo”. Eight soddisfa
il progetto intrigante di dare inizio a una trilogia, in cui ciascun album è
costituito da otto brani che saranno pubblicati in anteprima su Youtube, per
poi uscire in digitale e, infine, confluire in un vinile di dieci pezzi, scelti
dagli ascoltatori; ma se l’intuizione di impiegare radicalmente le possibilità
insite nei nuovi mezzi di fruizione risulta forse audace, più convenzionale è
la forma sonora scelta dal songwriter: come in un’edizione degli American
Recordings rielaborata dalla sensibilità
del vecchio continente, tra gli arpeggi timidi della chitarra acustica e una
vocalità dal retrogusto dissonante, ciò che domina è agrodolce rimpianto,
timore ma non angoscia, gioia ma non entusiasmo. L’incipit di Forever
with the Ghost si aprirebbe come una
solitaria cavalcata desertica, ma assume subito una coloritura schiettamente
europea nella voce asciutta dal timbro a tratti nasale; la corsa leggera sugli
arpeggi, che riecheggia il bucolico romanticismo di Devendra Banhart in The
Storm, alza la posta in gioco acquisendo
una più convincente levità britannica, mentre l’essenzialità di Find
Me impegna una voce gracidante da giovane Bolan
in un’implorazione amorosa disarmata. Il debito nei confronti di Banhart è di
nuovo evidente nell’urgenza sopita di He’s Wrong, così come fin troppo palese la parentela di Mary
J con lo schivo riserbo di Nick Drake: la
vibrante emotività sottesa all’archetipica The Thoughts of Mary Jane stimola inevitabilmente una nostalgia uditiva. La
voce, esilissima in December,
traghetta infine il Damien Rice di Animals Were presso la casa di Suzanne, vicina al fiume come la
mia.
Il diritto rivendicato a trattare temi condivisi e generali quali la
solitudine, l’amore, la frustrazione esistenziale attraverso altrettanto
familiari strutture espressive è senza dubbio legittimo, eppure confido negli
altri capitoli della trilogia per ascoltare qualcosa di più musicalmente
temerario, per sancire l’autenticità dei sentimenti che Roncea cerca di
comunicare.
Voto: ◆◆◇◇◇
Label: Autoprodotto
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