mercoledì 5 giugno 2013

Savages – Silence Yourself (Recensione)

Il fatto che il post-punk sia stato la soundtrack inattuale dei miei pomeriggi adolescenziali, consumati seduta sul pavimento con la schiena contro il poster dei Joy Division appeso proprio lì, alla porta della mia stanza, non aiuta a valutare con sufficiente distacco un lavoro per molti aspetti “retromane” quale quello delle Savages: perché alla fame di assorbire quel suono insieme muscolare e scarno ancora una volta, e sentirlo uscire da corpi e cervelli non prematuramente deceduti o non infiacchiti dal tempo, si affianca un’infantile diffidenza, verso epigoni che il pregiudizio ha già tacciato di inferiorità rispetto agli eroi inetti del secolo trascorso.

Così, la caustica frenesia che erompe dalle prime note di "Shut Up" provoca l’ambivalente effetto di una godibile familiarità e di una risentita indignazione. Il basso circolare e melodico che arricchisce la ritmica asciutta, la chitarra affilata ed essenziale e una vocalità intenzionalmente teatrale fino all’eccesso: la riproduzione degli stilemi è ineccepibile, ma si insinua il sospetto che manchi quella sensazione di sconfitta esistenziale, coscientemente caricata sulle spalle, quale basilare movente espressivo. "I Am Here" replica la nervosa desolazione dei Bauhaus di "In The Flat Field", incastrando intervalli di sgomento strumentale, che abbandonano sola la voce singhiozzante di Jehnny Beth, in una tensione satura sino all’esasperazione. La danza epilettica di "City’s Full" è sorretta da una chitarra irrobustita, che si carica di overdrive in "Strife, ballad" avvelenata e sfilacciata in una dilatazione epica. La batteria bidimensionale introduce il soliloquio drammatico di "Waiting For A Sign": un’operazione di sottrazione sonora e scarnificazione degli elementi qui stratificati, memore delle esemplari intuizioni di Martin Hannett in fase di produzione, avrebbe forse accresciuto il fascino lugubre e il senso di impotente rassegnazione, qui lasciati inespressi.

Dopo il superfluo intermezzo strumentale di "Dead Nature", succedersi di rintocchi e gocciolii, il tentativo di aggressione si rinvigorisce con la scheletrica poeticità del singolo "She Wil"l: sull’essenziale arabesco della chitarra Jehnny Beth riesce a contenere la voce in una declamazione sofferta ma equilibrata, che deraglia solo nel finale in uno strozzato singulto. Lo scatto febbrile di "No Face" prelude all’accelerazione incontrollata di "Hit Me", prima del prevedibile epilogo segnato dall’inquieta "Husbands" e dalla premeditata drammaticità della title track, che nemmeno il conclusivo sassofono discontinuo riesce a preservare da un’impressione di prevedibilità.

Voto: ◆◆◇◇
Label: Matador/Pop Noir

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