Cinque dischi in due decadi,
sette anni da Excellent Italian Greyhound:
il bilancio quantitativo e cronologico all’uscita di Dude Incredible è la testimonianza tangibile della radicale
autosufficienza di Steve Albini; il movente non è l’integrità morale, categoria
vuota e ingannevole che non ho alcun interesse a chiamare in causa, ma
l’intelligenza artistica e professionale di un individuo che attraversa i
decenni e le esperienze musicali con autarchia e coerenza singolari.
Se la costanza è la forza di
Steve e compagni, cosa può aggiungere un nuovo disco degli Shellac, frutto di
sporadiche sessioni agli Electrical Audio Studios, alla produzione precedente?
La prima sensazione, di familiarità rispetto a un tracciato seguito da At Action
Park a oggi, è corroborata anche dagli
ascolti successivi; gli stilemi classici del suono del trio sono dispiegati
tutti sin dall’incipit omonimo, dalle frequenze soddisfatte tutte integralmente
senza asfissia sonora, alla voce che compare defilata evitando di attaccare
frontalmente. Le tautologie autocitazioniste proseguono in Compliant, memorizzata agilmente dopo il terzo ascolto, in cui
anche gli strategici silenzi risuonano di vibrazione propria; la variazione sul
tema si arricchisce di intrecci percussivi e catene armoniche in You
Came in Me, bizzarra incursione albiniana
nell’esperienza sessuale femminile. Lo spoken, fin qui isterico, diventa
sommesso e appartato con Riding Bikes, strutturata su poche pennate sulla chitarra, aguzze come corrente elettrica
intermittente, e sul basso che stilla una melodia al petrolio. Un insolito coro
apre la digressione storica sugli agrimensori di All the Surveyors, con cui forse Albini intende suggerire che
l’America dei padri sia fondata sulla manutenzione della proprietà privata;
riappare il leit motiv essenziale reiterato tra basso e chitarra, mentre alla
batteria sembra affidato il compito di segnare e gestire le variazioni. Per lo
strumentale The People’s Microphone
potrei servirmi dell’etichetta math-rock, se gli Shellac e Albini per primo non
fossero antesignani involontari del genere, con esiti spesso più convincenti e
rigorosi di molti successori; gli stop, affidati agli esordi alla drum machine
dei Big Black, sono ormai le tappe della marcia guidata da Todd Trainer. Gary, dedicata a una cittadina dell’Indiana, mostra una lentezza di cui l’immobilità della provincia americana è il
correlativo oggettivo; nemmeno il nucleo sferragliante si salva dalla gravità,
garantita dal flemmatico basso di Bob Weston. E come se l’incursione nella
provincia richiamasse inevitabilmente gli agrimensori, questi borghesi padri
fondatori tornano nelle sincopi cardiache di Mayor/Surveyor; la stessa ossatura si ripete nella conclusiva Surveyor, rivestita ora di tendini e muscolatura esplosiva.
Nell’era dell’hype che amplifica
il nulla, della promozione disperata come una sirena inascoltata nell’oceano,
il cui unico scopo è mungere le già magre vacche delle band e dei loro sogni di
gloria, Albini suona scrive registra e ancora suona magari dal vivo ma nessuno,
apparentemente, lo sa. Perché l’occhialuto secchione del suono non fa proclami
sensazionali all’attenzione delle folle, ma persevera con pervicacia unica e
inattaccabile nella stessa, vecchia maledetta abitudine.
Voto: ◆◆◆◇◇
Label: Touch & Go
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