Apprendere che Scott Walker e i
Sunn O))) avevano finalmente unito le rispettive pantagrueliche forze ha
illuminato di nuove speranze gli ultimi mesi dell’anno, come quando lo stesso
Walker ci regalò in pieno inverno il capolavoro Bish Bosch, scompaginando improvvisamente la gerarchia delle
temute classifiche e top ten. Questa operazione in sinergia non è affatto
paragonabile al goffo esperimento che aveva affiancato un debole e imbarazzato
Lou Reed alla discutibile vena creativa dei Metallica anni zero: le menti e i
decibel coinvolti appartengono ad artisti nel pieno delle loro facoltà
espressive, che non temono il terrorismo sonoro e le soluzioni estreme in
quanto perfettamente padroni dei propri mezzi. Ma se i Sunn O))) non sono nuovi
alle collaborazioni, Walker ha invece intrapreso un percorso solitario sin
dalla fine dell’esperienza con i Walker Brothers; forse proprio a causa
dell’indole autarchica del crooner, che assurge al ruolo di fiero domatore,
l’esito del connubio defila il duo alle spalle quasi assumendo il compito di
backing band. D’altra parte, conscio che il drone spietato avrebbe potuto
metterlo all’angolo, Scott ha eliminato l’attenzione a qualsiasi sorta di
armonia, riducendo le linee vocali a un richiamo estremamente primordiale e
viscerale, ed è stato indirizzato verso una struttura compositiva più lineare
rispetto a Bish Bosch. Tuttavia,
poiché la veemenza dei Sunn O))) esige aperture per poter dilagare come
un’eruzione lavica, non c’è chance di condensare gli episodi del disco in una
forma canzone in qualche modo tradizionale: sembra che la composizione di
Walker, pur nell’essenzialità, sia stata guidata dalla collaborazione secondo
un’esigenza di maggiore complessità e varietà.
Sebbene l’attitudine quasi
operistica della voce nell’iniziale Brando
faccia temere un declino nel grottesco, lo schioccare di fruste per tori lunghe
fino a tre metri riconduce all’ordine: le chitarre sfoderano inaspettatamente
riff hard, bilanciati da accordi atonali, mentre Walker enumera le scene di
film in cui l’attore menzionato nel titolo viene picchiato o percosso; Herod
2014 esordisce con campane, che poi si
celano per riemergere solo alla fine del brano, e interferenze di rumore bianco
che acuiscono il senso di minaccia di cui sono impregnate le liriche, in cui
con rime e allitterazioni, degne di un metaphysical poet, Scott rievoca
l’infanticidio perpetrato dal Re di Giudea. Anche per lui il volume è il
segreto di felice esito della formula magica: tra fucine percussive e ronzanti
sussulti tellurici, ogni divagazione in Bull è ridotta all’osso e solo poche parole in latino
sfuggono al reiterato imprecare, accrescendone lo sgomento; tuttavia, lo schema
di essenzialità compositiva che connota l’album è sconvolta da Fetish che, tra scie di segheria e bollori metallici,
sembra essere più affine alle contorte strutture di Bish Bosch. La conclusiva Lullaby, scritta da Walker alla fine degli anni Novanta per
Ute Lemper e dedicata al tema del suicidio assistito, si invola su scie lancinanti
e bordate in lontananza, abbandonando la voce su radi scricchiolii e corde
vuote.
Voto: ◆◆◆◆◇
Label: 4AD
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