Sono trascorsi quasi due anni dalla prima e unica volta che ho incontrato i Low, dopo un’intervista pomeridiana da fibrillazione; perché a volte non SI VA a sentire un concerto, a volte un concerto è un incontro o persino un incidente in cui la vita è messa a repentaglio. Da allora, ogni nota che appartiene ad Alan Sparahwk e Mimi Parker innesca un corto circuito nella mia testa e riporta in vita il lirismo soffocante e il lucido calore dei suoni uditi quella sera di novembre a Firenze, quando l’aria era resa densa dalle melodie incastonate una dentro l’altra e attraversata da sentieri e strade maestre di arpeggi acustici e parche distorsioni. Da allora e ancora oggi, riferendomi a loro preferisco parlare di stile classico e cameristico piuttosto che di slowcore, perché pochi altri hanno compreso e attuato una padronanza delle dinamiche così radicale e pochi possiedono un’attenzione da artigiani che conoscono solo un gesto, eseguito però con maestria millenaria.
La dedizione uditiva domina anche
One and Sixes, come è evidente sin
dall’incipit Gentle: i bit
percussivi e le tastiere ornamentali sanno quando enfatizzare le voci di Mimi e
Alan, increspate dal riverbero come una superficie d’acqua. Intermittenti
interferenze di chitarra spingono le percussioni secche in No
Comprende, mentre la parte vocale si eleva
in un coro o intesse dialoghi con il controcanto; nel finale tutte le
componenti di questa orchestrazione da funerale rurale convergono e si fondono.
In Spanish Translation Alan emette
un richiamo da un luogo remoto, per poi unirsi a Mimi nel dirigere l’ensemble
delle tastiere e dei riverberi, che sottraggono alle voci la loro corporeità. Congregation introduce a una funzione toccata dal demonio della
modernità, che sdoppia triplica e moltiplica gli interventi vocali e disturba
con beat sintetici il percorso verso la beatitudine; con incedere infantile, No
End travolge con un muro nebuloso di
materia vocale gassosa, pervasa da bagliori chitarristici, e Into You ripropone nel cantato la moltitudine artificiale,
animata da un battito cardiaco inumano. What Part of Me socchiude la finestra su uno scorcio di serenità
pacata, che semplicemente dirotta l’intenzione attenuando il pathos, ma non
muta la forma espressiva; il cupo trascinarsi delle percussioni sintetiche di The
Innocents sigilla subito la parentesi amena
e ripristina la drammaticità, portata in trionfo dall’accoppiata drammatica
delle voci e dai pochi interventi della chitarra morbida e lirica. Nonostante
l’accelerazione modesta, l’attenzione si conserva omogenea anche in Kids
in the Corner, non turbata nemmeno dai
curati saliscendi dinamici; il manuale personale di Lies, redatto dai Low sulla scrittura di una melodia
riconoscibile, emotivamente compromettente e mai debordante, è smentito da Landslide: la chitarra irrompe suonando a morto, una massa di
riverberi cresce quando entra la voce, preparando alla sconsolata mestizia che
strangola il pezzo e incrina l’uniforme candore del disco, in un lunghissimo
strascico sfilacciato. DJ congeda
con un arpeggio elementare e con l’ultima, perentoria affermazione della
potenza evocativa delle loro voci, amara e granulosa quella di Alan, traslucida
e impalpabile quella di Mimi; mentre il piano scandisce i secondi, la chitarra
si affretta verso l’epilogo rarefatto.
One and Sixes vanta melodie più robuste e sfrontate del precedente
The Invisible Way, ma sembra soffrire gli
interventi sintetici, che talvolta sovraccaricano la scarna limpidezza di cui i
Low sono capaci.
Voto: ◆◆◆◇◇
Label: Sub Pop
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