Più o meno un paio di anni fa mi
occupai di un disco che mi mandò in crisi. Non perché non mi piacesse, tutt’altro,
ma perché non sapevo minimamente come descrivere la musica proposta nelle sette
tracce di Il De’ Blues, questo il
nome dell’album. Me la cavai scrivendo un racconto, una sorta di trama
stereotipata noir che prendeva le fila dalle suggestioni che le canzoni mi
lasciavano. Ora i Vonneumann tornano con Sitcom Koan, ed è ancora più dura: se
il precedente disco era un’ode alla sperimentazione questo è addirittura un
live improvvisato nel 2010 (al Riunione
di condominio, locale non più attivo), portato a nuova vita dopo alcuni
anni grazie ad alcune sovraincisioni (in maniera Zappiana) che non intaccano comunque quella che è la natura
primigenea dell’opera...ovvero la libertà e la follia più pure. I Vonneumann si
amano o si odiano, ed io che faccio parte della prima schiera ho l’ingrato
compito di intavolare un discorso cercando di capire io stesso perché alcune
cose mi sono piaciute ed altre no. Fatte le presentazioni andiamo a cominciare.
L’inizio è composto da corde che
si incrociano, che sian di basso o di chitarra poco importa quel che conta è l’atmosfera,
oscura, ipnotica, incalzante man mano che ci si avvicina al finale: Requiem Per Foroppo, questo il tiolo
della prima traccia, dalla quale balziamo direttamente alla decima, In Sette Lupi, senza alcuna motivazione
logica. Undici minuti di un brano estenuante, con rumori vari a tastare la
pazienza dell’ascoltatore, vagheggi elettronici ed arpeggi folli, una chitarra
in reverse che si insinua pian piano e la tromba che preannuncia la fine del
pezzo meno digeribile, se non a tratti: sconsigliato dopo i pasti. Ci suona
anche Marco Carcasi su questo pezzo
(Kar, Scatole Sonore, Rumore Austero), ma non dicono cosa suona e io non l’ho
chiesto.
La batteria c’è poco, solo in
qualche brano, a volte aggiunta successivamente in studio come nel caso di Lo Rullantaro, inizialmente una malinconica
tromba solitaria su cui arrivano rumorose ed eccessive le percussioni. Ci sono
tanti applausi invece (il 98% sono genuini ci tiene a precisare la band) e
quelli della conclusiva Completene,
inscatolati a dovere, sono la base ritmica su cui aggiungere in studio
distorsioni a profusione, pure su synth e batteria: gran gioia per le orecchie
quest’improvvisa e catartica furia, almeno quanto la comparsa della batteria e
di una lacrimosa tromba alla fine della scarna ed ossessiva Giancarlo International. 8vvv8v ha un tappeto di basso così
ipnotico che ti giustifica quanto di folle ci accade sopra, tipo le note
convulse di una chitarra tarantolata, ed è un delirio intenso che dura il
giusto, quei quasi quattro minuti che ti lasciano sazio senza che la cena ti si
ripresenti a letto a toglierti il sonno. Grachtengordel
Incompleteness è un viaggio inquietante, un affastellarsi di note in
libertà fra trombe, synth, chitarre, basso: se ci trovate uno schema siete
geniali o completamente pazzi, ma non è affatto male neanche perdersi lì dentro
senza una guida...tanto avete Prelude To
Completeness per riprendervi, con la sua scarnissima eviscerazione del tema
L’assenza.
DROH sta più o meno in mezzo a tutto quanto, ed è distorta. Dall’inizio,
o quasi, alla fine, o quasi. A metà potrebbero esplodervi le orecchie, rumorismo
concettuale lo chiamerei se dovessi inventare un genere per definire il brano.
Ma non devo.
Di solito qui tiro le fila del
discorso, ma siccome non so bene cosa ho scritto chiudo con una citazione, e se
non capite da dove l’ho presa mettetevi in castigo da soli: quando non sai cos’è, allora è jazz.
Voto: ◆◆◆◇◇
Label: Ammiratore Omonimo Records
grachtengordel incompleteness from vonneumann on Vimeo.
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