sabato 5 novembre 2016

Civil Civic - The Test (Recensione)

Un amalgama saturo che risucchia i bassi verso le orbite delle frequenze alte. La dance-wave strumentale dei Civil Civic potrebbe essere fuggita dalle compilation glaciali che fotografavano la scena di Sheffield in un’istantanea in bianco e nero. L’industrial sardonico dei Cabaret Voltaire, la psichedelia artificiale e inquietante degli I’m So Hollow, tutto il giacimento metallifero della decadenza industriale del secolo scorso, mai arresa al declino ma rivolta verso l’evasione del dancefloor, riaffiora come una vena in The Test, secondo album del duo arrivato a cinque anni di distanza dall’ultimo full-length Rules.
The Island apre le danze con uno shake gelido che sembra voler coniare una nuova nozione di spensieratezza, virata con convinzione verso la no-wave da dancefloor a metà del minutaggio. La tentazione di conquistare la pista al grido di DISCO NOT DISCO irrompe in The Mirror, che si muove in bilico sul confine labilissimo tra la Factory e l’Hacienda. Le chitarre riverberano 80s anche in The Crush, correndo sul manico come Robert Smith per attraversare il centro della città che separa il party dalla periferia. The Hunt è il patto di non belligeranza con cui Fadgadget abbandona il predominio delle macchine, per inaugurare una nuova era ibrida segnata dalla fusione indistinguibile tra elemento sintetico e componenti analogiche: una cascata di deflagrazioni industriali interrotte, abortite e poi innescate di nuovo, per finire poi diluite e scomposte in micromolecole. Il fragore è invece intenzionalmente sopito con rintocchi liquidi di arpeggi e synth in The Lull, il cui incedere caliginoso segue la ruota del tempo innescata da “The Box”, il terzo componente inanimato dei Civil Civic; senza soluzione di continuità, The Shift innesca di nuovo l’ingranaggio su velocità da catena di montaggio danzereccia, scandita da intervalli robotici inframmezzati a impasti siderali. Regnano incontrastati synth dalla voce granulosa in The Slide, scombinata da occasionali stravolgimenti ritmici, rallentamenti sul cronometro, slanci inaspettati. Con arpeggi e schiocchi di dita androidi, The Gift chiude le danze riesumando sfacciatamente i Cure di 10.15 Saturday Night: i Civil Civic non scelgono una fuga fragorosa ma un congedo essenziale, cesellato su chitarre squillanti e batteria asciutta. Una dichiarazione d’intenti sul finale, a ribadire che l’essenzialità è il linguaggio di un eterno presente, in cui l’artificiale più futuristico ha già vissuto mille volte nel passato.

Voto: ◆◆◆◇◇
Label: Gross Domestic Production

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