Oliver Ackermann, leader degli A Place To Bury Strangers, disse un giorno che le dolorose istantanee della vita servono eccome, servono per solidificarsi nella vita e fondare un proprio mondo sicuro, dove certezze, conferme e qualità siano le forze in mutazione per restare continuamente in asse con sé stessi. A sentire questo “Worship”, terzo lavoro della formazione Newyorkese, mai parole furono più azzeccate, tutto si ritrova in queste tracce – come del resto già il precedente e fenomenale Exploding Head aveva anticipato – e l’ancoramento sugli stilemi wavers, con una accentuata oscurità Curtisiana, si fa avanti in uno splendore ossessivo quanto ansioso.
Non c’è più Jono Mofo al basso, sostituito da Dion Lunadon, rimane alle pelli lo scattante Jay Space ed una nuova creatività che spazia lungo le undici tracce, tracce che si allontanano – e di molto – dai rumorismi alla Sonic Youth per abbracciare un poco di più le ecchimosi rimarginate di Jesus & Mary Chain, deviazione che rende il groove oltre che di una grammatura sintetica anche orecchiabile: dunque una svolta quasi totale, ovviamente mettendo in salvo le irrinunciabili polle di rumore bianco e quell’aria sickness che oramai fa parte della morfologia umana ed artistica degli anni Ottanta.
Canzoni come sinfonie mesmeriche elettrizzate, progressioni fenomenali di chitarre ed una omogeneità compositiva che danno un fulgore “estraneo” estremamente sincero, una fuga dalle pene terrene - a tratti autodistruttiva – che si calibra tra feedback, latrati electro wave, un continuo combattere tra suoni analogici e pulsazioni di drum machine che – assunte come battitrici digitali di una certa nostalgia alle spalle – danno il loro massimo dall’inizio alla fine di questo buon album; ottima la destabilizzazione onirica di “Fear”, lo strazio poetico punteggiante “Why I can’t cry anymore”, l’isolotto che galleggia nella calma “Slide” come l’epilessia aliena che rimbomba tra le pareti di “Mind control” o la botta finale noise che “Leaving Tomorrow” vuole esibire prima di riportare il disco al capolinea e ritemprarlo per un altro girovagare nel mediatico.
Il trio della Big Apple ci sa fare, si riconferma alla grande e regala – a tutti quei indistruttibili amanti degli anni Ottanta – uno spirito di desiderio ed un pezzetto di cielo come sempre, magnificamente nuvoloso.
Voto: ◆◆◆◆◇
Non c’è più Jono Mofo al basso, sostituito da Dion Lunadon, rimane alle pelli lo scattante Jay Space ed una nuova creatività che spazia lungo le undici tracce, tracce che si allontanano – e di molto – dai rumorismi alla Sonic Youth per abbracciare un poco di più le ecchimosi rimarginate di Jesus & Mary Chain, deviazione che rende il groove oltre che di una grammatura sintetica anche orecchiabile: dunque una svolta quasi totale, ovviamente mettendo in salvo le irrinunciabili polle di rumore bianco e quell’aria sickness che oramai fa parte della morfologia umana ed artistica degli anni Ottanta.
Canzoni come sinfonie mesmeriche elettrizzate, progressioni fenomenali di chitarre ed una omogeneità compositiva che danno un fulgore “estraneo” estremamente sincero, una fuga dalle pene terrene - a tratti autodistruttiva – che si calibra tra feedback, latrati electro wave, un continuo combattere tra suoni analogici e pulsazioni di drum machine che – assunte come battitrici digitali di una certa nostalgia alle spalle – danno il loro massimo dall’inizio alla fine di questo buon album; ottima la destabilizzazione onirica di “Fear”, lo strazio poetico punteggiante “Why I can’t cry anymore”, l’isolotto che galleggia nella calma “Slide” come l’epilessia aliena che rimbomba tra le pareti di “Mind control” o la botta finale noise che “Leaving Tomorrow” vuole esibire prima di riportare il disco al capolinea e ritemprarlo per un altro girovagare nel mediatico.
Il trio della Big Apple ci sa fare, si riconferma alla grande e regala – a tutti quei indistruttibili amanti degli anni Ottanta – uno spirito di desiderio ed un pezzetto di cielo come sempre, magnificamente nuvoloso.
Voto: ◆◆◆◆◇
Label: Dead Oceans
Max Sannella
Max Sannella
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