domenica 17 aprile 2011

Bancale - Frontiera (Recensione)

“Ecco la tua frontiera: al di qua il nulla, al di là ancora”

Bordi di strade abbandonate. Binari dismessi sui quali si cammina a piedi nudi nel silenzio di un cielo plumbeo. Angoscia della solitudine, della fine. Decadenza. Abbiamo superato l'ultima oasi, dinnanzi a noi la Frontiera. Catrame sciolto. Aria infuocata ci permea i polmoni. Un limbo dove i pochi rimasti raschiano legno e metallo, ossessionati da quegli unici suoni, quasi come se potessero districare l'uomo da quel taciturno incedere nella desolazione. Discariche, mosche su carne consumata, respiri interrotti e nient'altro...

I Bancale non sono un ascolto facile. Mettono radici nella tua mente, pesanti e pragmatici nello srotolare fiumi di parole a farti balenare in mente paesaggi desolati di mondi lontani e vicini allo stesso tempo. Sempre a metà tra due estremi. Nessun paradiso, nessun inferno, tutt'al più un purgatorio, una dimensione di mezzo nella quale si sprofonda come fossili nel terreno. Vengono da Bergamo ed esordiscono con questo loro primo album dopo un Ep, uscito due anni fa. “Frontiera” è un concept inteso a descrivere incubi di mezzo, di paure tangibili come quelle di un abbandono metropolitano esistenziale. Su quest'album la firma, in studio di registrazione, in “Randagio” e “Suonatore del Cielo”, di Xabier Iriondo che sa bene quel che fa. Musica che pesca dal blues, dal noise, dal post rock. Percussioni (Fabrizio Colombi) decorate con lamiere, suonate come campane appese ad un campanile in disuso. Una chitarra spettrale, graffiante, stanca, (Alessandro Adelio Rossi) emerge dal silenzio ad introdurre un parlato smarrito (Luca Vittorio Barachetti) tutt'altro che orecchiabile. Il linguaggio, estrapolato dalle sue linee ordinarie in visione di un urgenza creativa espressionistica, è piegato da Barachetti nell' affastellare immagini una sopra l'altra in pile disordinate. Musica stilizzata come l'ominide che si staglia in copertina sullo sfondo bianco. Momenti rumorosi motivati da rabbia ed esasperazione per la caducità e l'infinita debolezza della carne.

“E' il mio corpo una chiesa che guardo da fuori e guardandola immagino travi e muri portanti cadere sul peso svuotante di tarme e ragni...” (Corpo, giorno che scorna)

Attraverso discorsi didascalici, quasi allegorici, l'ermetismo sonoro e lirico, riesce sempre a districarsi dall'essere fine a sé stesso. Dal blues criptico di “Calolzio” (“E' la prima pietra, si la prima pietra. E su questa pietra edificherai la tua resa.”) si passa alla title track, a questa “Frontiera” che descrive appieno un paesaggio morente, nello straziante incedere di un arpeggio ossessivo, poi una scarica convulsa che quando finisce sei già ipnotizzato e trascinato in un percorso sonnambolico ben preciso. In “Cavalli” il dialogo si sdoppia nella lettura sovrapposta dello stesso Pier Paolo Pasolini, della poesia “La Terra e il Lavoro” amalgamandosi alle escoriazioni rumoriste della chitarra. Tra Bachi da Pietra e la concezione artistico-musicale dei Massimo Volume, si inseriscono i Bancale, legnosi a sostenere l'angoscia di un carico disintegrante privo di speranza. Alla fine del viaggio nessuna terra promessa. La Frontiera non è altro che realizzazione della perdizione, una suonata sotto un cielo comune a tutte le creature “quanto è bella la donna che ti lasciò, suonatore Cielo ? Quanto fu pazza se ti lasciò suonare ? (Suonatore Cielo)

...e in fondo all'orizzonte infine la destinazione ultima. Un vuoto grande come il cielo. La Frontiera.

"Se vorrai, sarò accanto alla strada"

Label: Ribéss / Fumaio / Palustre

Voto:◆◆◆◆


1 comments:

senzaverso ha detto...

Non c'è che dire un altro grande gruppo italiano che sa fondere e amalgamare suoni (e rumori) con liriche incise taglienti. Lasciano il segno

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