Già in tempi non sospetti, definimmo che il fertilissimo Kentucky ultimamente non esportasse solo succosi watermelon rosso sangue e mais color oro, ma anche una strana forza magnetica nera che prendeva il nome di Black Stone Cherry, un ruggito carezzevole che prendeva linfa vitale da un hard rock impregnato di southern, country e blues indiavolato; quella forza non si è mai spenta ed eccola tutta concentrata nel catalogo del nuovo “Between the Devil and the deep blue Sea”, la dimostrazione vivente di come alcuni gruppi non cercano nessuna conciliazione con il mainstream thing, piuttosto l’incaponimento nel seguitare ad essere equilibrati con tradizione e suono peso; ed è da qui che tutto diventa maledettamente e benedettamente serio.
Dentro c’è tutta l’America di provincia, le dichiarazioni di guerra amplificate degli anni settanta e l’impertinenza e dolcezza delle ballate field senza la spina, una forza modulata che muove questa musica di chitarroni con i denti e arpeggi dalle labbra rosse sugli sconfinati wiew immaginari di una Ruote qualsiasi, ma comunque sempre verso le direttrici della libertà.
La giovanissima band di Edmonton mette una cura certosina nel procacciarsi un sound tra il vintage ed il grave-stone ( anche se a volte l’idea e la sensazione di trovarsi di fronte ad un taglio musicale che aggancia i Nickelback e Black Label Society è forte) e ne confeziona un bel pacco con detonatore e miccia accesa da lanciare tra le eccezioni d’oro della tradizione yankee rivisitata.
Il dio dell’Hard Rock colpisce forte e bene all’interno delle dodici tracce più le tre bonus track, solleva polveroni e tempeste amplificate e carezza i cuori di chi si è fermato a localizzare le stelle dentro le notti a stelle e strisce, ed il termonetro del sangue segna quasi l’ebollizione quando esplode il vacuum bagnato di doom e stoner “White trash millionaire”, “Change”, “Killing floor”, “Blame it on the boom boom”. E lo stesso termomentro fredda l’argento vivo quando la particolarità delle emozioni si vanno tutte a coagulare nelle stupende schitarrate che spalmano ballate corali come “In my blood”, “Can’t you see”, “Stay”, tanto che l’ omaggio finale di un banjo folk cristallino e campagnolo “All I’m dreamin’ of”, pare far volare lo scopo primario e vero del registrato ( quello di ratificare la bravura della band) oltre il sottofondo, la parola, la strofa o la canzone, a fare compagnia alle grandi formazioni rock & States che rimarcano da sempre che la l’unica frontiera appena passata è sempre quella che ancora deve venire. Meravigliosi!
Voto: ◆◆◆◆◆
Label: Roadrunner Records
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