Definire in una parola questo nuovo (seppur non fresco di release, l’uscita è di due mesetti fa) Bon Iver ha del paradossale, perché quello che direi è: indefinito. Ogni canzone ogni suo pezzo manca di contorni. Vernon, o meglio il Buon Inverno diventano un’entità metafisica che si espande e vaporizza nella mente e nell’orecchio di chi ascolta. Quello che viene alla mente sono immagini arcaiche, lontane, un po’ come se ti mettessi sul cucuzzolo di una scogliera delle isole Aran a guardare pescatori che attendono sirene all’imbrunire – magari evitando le zampogne di sottofondo. Ma questo è il punto. Il sottofondo. L’immagine che viene dopo, l’amaro in bocca che rimane di un bel ricordo, di qualcosa che non c’è più. La voce di Justin Vernon ha un pregio che poche hanno, e lo si avvertiva dalle prime note di quella ormai mitizzata Skynny love di For Emma, Forever Ago: si dissolve come polvere, ti avvolge come polvere, appare in un fascio di luce diffusa e poi scompare. Come un ricordo, c’è, non c’è, va via, è lì a guardarti.
Dopo For Emma, Forever Ago immagino quanto sia costato a Vernon fare un nuovo album. Doveva confermare quella che è per eccellenza la parabola della meteora hand-made, nata nel suo capanno del Wisconsin con la sua chitarra e la sua bravura spontanea e naive. Doveva dimostrare che c’era un seguito a Emma, e non era forever ago. Giochi patetici di parole a parte, spero che il concetto sia chiaro: bisogna evitare di combattere con i propri fantasmi. Giustamente, Vernon ha fatto dell’evanescenza e dei fantasmi il leitmotiv di questo Bon Iver.
Punto primo: il nome dell’album. Punto secondo: ogni track ha il titolo di un luogo, città, e la tracklist è un viaggio – una visio in somnis, difficile trovare concretezza nella multi tonalità della voce di quest’uomo. Nessuna delle sue tappe è davvero un luogo. È uno spazio definito finchè copre quello che il suo nome gli permette di coprire su un pezzo di terra, ma poi nome è. È aria, è polvere, è evanescenza. Gli strumenti, quelli basici sono sempre gli stessi, anche se stavolta c’è più accortezza. Non voglio dire che ha strafatto, ma pezzi come Holocene o Calgary sono decisamente più curati dei precedenti. Minnesota WI vanta anche la collaborazione con Kanye West – azzardata? Il risultato non è male, anzi – che di certo non è un tipo da chitarre e fienile. Himmon, Tax sembra persino toccare le frontiere dubstep di un James Blake senza il tuo timbro più fermo, un po’ più Peter Gabriel forse, esattamente come Wash. - e si, il titolo ha un punto finale, fantastico . Lisbon, Oh ( suppongo che Oh stia per Ohio e non per qualche lamento ivoriano ) sono 1 minuto e 33 secondi di musica, anzi no, suono, è un intermezzo tra l’album e la sua fine? Lascia di stucco poi la finale Berth-Rest in cui decisamente c’è poco di Bon Iver, e molto di una ballata anni ’80-90 da Dirty Dancing – no, questo è esagerato, ma i giochi di chitarra elettrica e basso mettono in testa un po’ quel genere di film e molti parrucchi cotonati.
…and at once I knew I was not magnificent hulled far from the highway aisle (jagged, vacance, thick with ice) I could see for miles, miles, miles. L’Olocene è l’epoca geologica in cui viviamo, ha ben 11.700 anni. Bon Iver ci vede per miglia, miglia, miglia. E come dice lui, in un certo senso è parte di lui anche se distinto da lui. Insomma è Bon Iver, proprio come il suo album. Non è un album come For Emma Forever Ago, ma di certo è più pensato, corretto. Non è spontaneo, e non sarà di certo il suo masterpiece. Ma lo sa anche lui che l’Olocene durerà ancora per molto. Da ascoltare proprio perché è di Bon Iver.
Voto: ◆◆◆◇◇
Label: Jagjaguwar
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