Si, effettivamente se non fosse per la bulimia di canzoni a rappresentare l’estro anche troppo libertario del cantautore americano Joseph Arthur, quest’enciclopedica collezione di tracce chiamata “Redemption City” – senza spocchia agè – potrebbe essere anche un buon disco, a parte l’apatia generale dell’artista per le ristrettezze creative e di metrica, ma un doppio album ad un tre mesi circa dal precedente The Graduation Ceremony, suona come una svendita di musica della quale non si sa cosa farne.
Lui non ama regole o diktat, anima libera e salva da condizionamenti e leggi, della sua musica ne fa ciò che vuole, e su questo - ci mancherebbe – non ci piove, ma nemmeno un sole è da condividere; mettiamola pure sull’incalzante energia in più che Arthur deve in qualche modo dissipare, magari soprassediamo sul free-form poetico che deve raggiungere un punto alto di pathos, ma, sebbene si possa scaricare in download gratuito, questo album a breve andare soffoca e si contorce dentro se stesso, non per la qualità ma per troppa saccenza lirica e troppe sonorizzazioni messe sul fuoco.
Ventiquattro tracce che non ti fanno arrivare al capolinea d’ascolto, un flusso continuo di coscienza e frammentazioni che fanno riflettere e gettare colpi d’occhio su un uso d’elettronica e pop che vanno di pari passo, ma senza mai mostrare alternativa ad una deriva soffusa ma deriva su qualcosa di sminuitivo, superficiale e – col senno di poi – noioso ad oltranza; la penna di Arthur n’esce abbastanza ammaccata, lo spoken word tra ritornelli e beat ossessivi non rendono giustizia all’atmosfera coordinata che si cerca col lumicino dentro questo impazzito e grasso poetame a tutti i costi, e se questa per Arthur è la città della redenzione, figuriamoci i vicoli cosa potrebbero essere.
Pulsazioni elettroniche e wave elettriche “Mother of exile”, il retrofuturismo evocato in “Touched”, la canzone kilometrica che striscia “Surrender to the storm”, il robotismo filo-kraut “Sleepes”, l’umano che si riprende i fili propri dalla disumanizzazione tecnologica “Humanity fade”, le parole soffuse “Fractures” e l’andazzo metropolitano e chiassoso di un Lou Reed che ancheggia in “I miss the zoo”, da sole possono già essere una buona rappresentanza di quello che si rivolta dentro questo disco che, ripetiamo, più che un disco sembra un esercizio di stile e null’altro; le redenzioni possono accadere come le devianze, fa parte dell’eterno gioco della personalità umana, ma questa di Arthur non è una mossa azzeccata, più che altro un poetico scaffale d’offerte speciali o saldi last minute.
Peccato davvero per questo giro Joseph!
Voto: ◆◆◆◇◇
Label: Lonely Astronaut
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