Sono in quattro e di Torino, si chiamano Post, amano le caratterizzazioni esplicite di un romanticismo schizzato post-rock e si proiettano in un futuro tra le ceneri e convulsioni di rinascita di un misto Placebo/Magazine, ora cosa si vorrebbe di più da una formazione che osa bene fare i propri passi fregandosene altamente di bazzicare ancora territori mega-calpestati? Chiaramente nulla anzi, un sano rispetto è quello che occorre, perchè questi quattro umbratili eroi soverchiano – a ragion sentita – ogni giudizio critico, e le loro onde cromatiche grigio topo fanno furore tra malinconia e flash d’anima come pochi in giro tra i circondari underground.
“ Fakes From Another Place” suona come potrebbe suonare un persuasivo misticismo ribelle dei primi anni Ottanta (prima ma molto prima della capitolazione sfigata e malata) e le ambizioni ad incrocio dei nostri giorni scalmanati, undici tracce che stampano, una volta libere di scorrazzare sotto il lettore ottico, il compito di far luce e gusto ad un groove che non appassisce mai, nonostante le becere “accademie” che lo vorrebbero relegato a nostalgici patimenti logorroici, e i nostri torinesi tornano a nobilitarne – con i debiti accenti e disegni dei nostri tempi – la forza, la grandezza, i crepuscoli e le fedeltà tanto che ogni singolo pezzo vi inchioderà in un ascolto terribilmente esemplare.
Post-rock iniettato di indie, così, a nudo, chitarre zigrinate incastrate da ritmiche seducenti, quadrate, poetica che rimbalza come un metronomo impazzito, una forma mentale e musicale che fa “precisione” in un disco che non ci mollerà facilmente, pronto a cavalcare ambizioni grosse e realtà espanse; chi cerca falle non ne troverà, magari qualche eccesso di zelo strumentale, ma niente di fuori posto, casomai una pienezza di tutto che si materializza negli unguenti sonori dei primissimi U2 “Wait”, corre nelle dolcezze amarognole della wave più declamata “Little waves”, si dilegua tra il vanishing nebbioso che colora i non luoghi visitati da “Closer to an end” o si accasa nei banchetti sacrificali di Dave Gahan che in “You beggar” torna a potenziare le mitologie oscure del rock senza un dio quando una epilettica”Who the hell” si insinua trafelata a confondere tutta la trama con un andamento glammy, esportabile immediatamente tra le memorabilie schizzate di lontanissimi Ultravox dopati.
I Post non hanno una traccia efficace, hanno una efficacia divisa in tracce, una credibilità sorprendente sbattuta in faccia e all’orecchio che mantiene quello che promette sin dalla prima nota, e fin qui ci siamo, ma all’improvviso quando passa l’unica traccia in italiano “Non mi confondere” ti senti segare le gambe dall’emozione fintanto che rimani maciullato tra infinito e circoscritto, e anche se provi a lottare, tutto è vano, oramai il disco ti ha fatto suo senza peccato.
Voto: ◆◆◆◆◇
Label: La Voce Del Gregge
2 comments:
Gran bel gruppo...
Figata!...Veramente Rock Rock Rock
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