Il Mercury project è un pezzo di storia della storia
americana e, più in generale, di quella dell’umanità in rapporto con lo
spazio, la prima missione del genere creata dalla allora nascente NASA, ed è anche un concept album che, tanti anni dopo la sua realizzazione, Adi Newton alias Clock DVA ha portato a compimento con questa tardiva release, contenente
brani composti tra il 1994 e il 1996 finora chiusi in un cassetto,
secondo la medesima dichiarazione dell’artista. La sua creatura, famosa
per essere annoverata nel seminale trio di acts responsabili del primigenio sviluppo della musica industriale, si è fatta, nella sua storia, portatrice del nascente messaggio cyberpunk che, anche in questa sede, continua a mostrare nella sua forma più evoluta, proponendo un sound frutto della sperimentazione della metà degli anni ’90, legato in particolar modo a quello shift verso l’electronica e in particolare la techno che molta della musica poi definita electro industrial
lancia in questi anni su scala mondiale. Sebbene il suono, che sia un
pregio o un difetto, risulti piuttosto datato nei mezzi e nella qualità,
ciò dona alla presente un’aura di sacralità, laddove il dibattito benjaminiano
incontra i mezzi che la musica elettronica mette a disposizione, una
riproducibilità nella sua irriproducibilità tecnica. Ascoltare oggi
questi dodici brani fa tornare la memoria a tempi non vissuti dalla
maggior parte delle generazioni, a un momento storico in cui la musica industriale
non aveva dei reali confini, se non, come unici, il fatto di superarli
costantemente tramite il circuito della sperimentazione. E la
sperimentazione è la chiave di volta di questi brani non cantati, nenie
quasi ipnotiche, talvolta lunghe, talaltra più stringate, che esprimono
un senso di astrazione dalla realtà odierna e che alienano nello spazio,
rimandando la mente ai tempi dei primi viaggi umani fuori dall’orbita
terrestre. Qualcuno ha cominciato ad etichettare questa musica come una
forma primitiva di dark ambient, forse questo è vero in parte,
ma quel che è più certo è che i confini in questa sede sono molto labili
e abbracciano tutto quello che in quel momento veniva considerato al
suo apice. Laddove molti degli artisti industriali in quegli anni inseguono una presunta fisicità comunque parzialmente lontana dalle premesse di un genere che fa del sintetizzatore la sua intrinseca magia, l’artista,
appartenente alla seconda categoria, porta avanti il discorso aprendosi
verso i nuovi lidi elettronici europei di quegli anni, e facendoci
pensare al punto in cui sarebbe potuto arrivare se ancora oggi avesse
continuato a sfornare releases di nuovo materiale, in quanto il suddetto è pur sempre un lavoro di materiale a posteriori. Quel che è indubbio è che Adi Newton si conferma un grande artista e sperimentatore, uno dei più grandi degli anni ’80, e questa release riaccende un dibattito sepolto anni fa. La scelta di proporre un lavoro strumentale fa da pendant con Digital soundtracks del 1992 e riassume quel bisogno di espandere una musica parzialmente legata alla forma canzone
in qualcosa di più largo respiro, intendendo l’operazione come una
estensione del lavoro precedente, così come il presente rappresenta
idealmente l’estensione del precedente disco in studio Sign del 1993. Musicalmente, ma soprattutto idealmente, l’artista appartiene ad un’altra generazione di musica industriale, lì dove l’atmosfera e il messaggio contano molto più di una presenza scenica, oggi invece preponderante, figlia del fenomeno EBM dei primi anni ’90. Oggi non è semplice comprendere il messaggio di Newton e non ci si aspetta che questo disco aiuti nello scopo, ma senz’altro ci saranno molte persone che apprezzeranno la sua scelta.
Label: Anterior Research Media Comm
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