Ci sono sempre delle domande, così come “c'è sempre un fottuto spettro” (solita citazione onanistica che nessuno capirà). Quella che mi ronza in testa da qualche anno, e che si è ripresentata con l'annuncio di questo Memorial, è “ma perchè i fans di una band s'incazzano se il loro gruppo di riferimento viene conosciuto attraverso altri media?”.
Io i Russian Circles, lo ammetto candidamente, non sapevo neanche chi fossero prima di giocare a Dead Space 2, videogame in salsa horror sci-fi in cui la loro "Fathom" fungeva da accompagnamento sonoro perfetto...eppure se fai un'ammissione del genere su youtube trovi millemila persone che si sentono in dovere di dire “c'ero prima io”, schifandoti manco c'avessi la peste e come se fosse un male che la band di Chicago sia riuscita (ne sono convinto) a procacciarsi un bel po' di acquirenti della loro musica in più grazie ad una mossa che è certo migliore che fare una canzone per la pubblicità del Mulino Bianco. Ma vabbè, sul tubo si trova anche chi si lamenta che una canzone degli anni 50 venga conosciuta tramite Fallout: New Vegas ("Johnny Guitar" di Peggy Lee) quindi è meglio lasciare questa marmaglia nel suo brodo e piantarla con questo inutile cappello introduttivo da nerd per parlare, finalmente, di musica.
Se non altro quanto scritto
sopra è utile per dire che, al di là della stessa "Fathom", l'album
Geneva da cui era tratta è stato per me il punto più alto della
carriera discografica dei tre post-rocker di Chicago, pregno di
potenza e ogni tanto anche di una vena leggiadra che il seguente
Empros del 2011 non riusciva a raggiungere, cercando di spingersi più
in là con arrangiamenti maggiormente laboriosi che toglievano però
spessore “emotivo” alle composizioni. Memorial in questo senso
sembra un po' tornare indietro per andare avanti, se mi si concede
l'ambigua frase, visto che gli arrangiamenti sono più semplici e le
dinamiche tornano a farla da padrone, e se l'inizio tranquillo e
pacato di “Memoriam” sembra suggerire nuovi orizzonti sonori è
già la seguente “Deficit” a riportare l'ascoltatore verso ben
note atmosfere scure e detonanti. La batteria di Dave Turncrantz è
potente come non mai, il ritmo incalzante e le sonorità potenti come
me le ricordavo nei migliori momenti, anche quando si lascia spazio
alla melodia con un nebuloso arpeggio di chitarra che fa capolino
durante i quasi 7 minuti di durata del brano, che sfuma lentamente
fino ad attaccarsi perfettamente all'intro della successiva “1777”.
Qui le atmosfere si fanno più rarefatte, le chitarre si ergono
protagoniste disegnando un paesaggio arioso e quasi epico, energia
allo stato puro che sa scatenare anche ondate di potenza quali la
cavalcata degli strumenti a metà brano: semplicemente perfetta e
sicuramente il brano migliore del lotto. “Cheyenne” arriva a
tingere di pennellate nostalgiche il quadro, con arpeggi malinconici
a cui il basso cupo e roboante di Brian Cook crea il terreno su cui
poggiare in mancanza della batteria, giusto prima che “Burial”
torni a scuotere le fondamenta con forza tellurica, sminuita solo in
parte dalla mancanza di un finale adeguato al suo cupo incedere,
difetto che appare in maniera più evidente in “Lebaron”, mezzo
passo falso ampiamente perdonabile all'interno del disco. In mezzo
alle tenebre claustrofobiche di questi due brani gli acutissimi
incroci di chitarre di “Ethel”, marchio di fabbrica di Mike
Sullivan già sfoggiato in vari brani passati (ripescatevi una Malko
a caso per farvi un'idea), dimostrano come il cambio continuo di
registro non incide minimamente sulla sensazione di continuità ed
omogeneità del disco, che sfoggia un'improvviso passaggio ad una
tranquilla leggiadria sonora (ma col basso sempre potentissimo in
sottofondo) superato in atmosfera solo dalla conclusiva title track,
dove viene ripreso ed avvalorato l'incipit iniziale grazie alla voce
eterea di Chelsea Wolfe, cantante evidentemente molto amata dal mondo
del rock underground statunitense visto che la stessa band ha
condiviso (e sta condividendo) con lei la quasi totalità del tour
europeo e un certo Mark Lanegan l'ha omaggiata con una cover nel suo
recente ultimo disco. Una chiusura un po' fuori dai paesaggi sonori
solitamente solcati dal gruppo di Chicago, ma non per questo
disprezzabile.
Non si fosse capito dalle parole
espresse qui sopra lo dico apertamente: Memorial è probabilmente il
miglior disco della band di Chicago, una collezione di 8 brani che,
ognuno in maniera diversa, riesce a provocare emozioni contrastanti
ma coese fra di loro. Magari non reggerà alla prova del tempo che
Geneva ha superato in scioltezza, ma l'impressione che ho ricevuto
dagli ascolti finora susseguitisi è che possa farcela anche in
maniera migliore: il rimorso per non essermi sbattuto ad andarli a
vedere a Bologna intanto mi dilania lentamente, povero me...cercherò
di sedarlo giocando a Dead Space 2 (no scherzo, l'ho già finito).
Voto: ◆◆◆◆◆
Label: Sargent House
Label: Sargent House
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