Greg Dulli è da tempo una delle figure preminenti della musica “alternativa” americana, fin dagli esordi della sua creatura più famosa, gli Afghan Whigs ritrovatisi dopo 13 anni nel 2012 per un tour in giro per il mondo. Dopo la chiusura dell’esperienza Whigs avvenuta alla fine del 1998, una volta licenziato l’ottimo “1965”, Dulli si è dedicato a numerose esperienze: i Twilight Singers, proseguimento ideale dell’esperienza precedente, i Gutters Twins con l’amico Mark Lanegan, dischi solisti, ospitate italiane, un sacco di roba insomma. Nulla di epocale (se non i primi due meravigliosi dischi dei Twilight Singers, “Twiligt as played by twilight singers” e il capolavoro del 2003 Blackberry Belle) alti e bassi in una carriera ormai lunghissima.
Gli Afghan Whigs sono stati fino alla fine degli anni ’90 il caposaldo di un modo di intendere musica del tutto personale, infilati , come di moda all’epoca, sul carrozzone Grunge i dischi degli Whigs non hanno mai nascosto minimamente le passioni del loro ideologo. Greg Dulli è un Soulman bianco, non un rocker, men che meno un punk.
Dopo 15 anni di silenzio, eccezion fatta per due nuovi pezzi inclusi nel “best of” del 2007, e considerato il discreto successo del tour della reunion, ecco che Greg Dulli e il Bassista John Curley (unici superstiti del progetto originale) tornano a metter mani agli Afghan Whigs.
Se conoscete la carriera di Greg Dulli non dovreste essere sorpresi dal risultato di “Do to the beast”, disco che segue il percorso lineare intrapreso dall’autore sin dall’ultimo disco a nome Afghan Whigs, 1965. La ricerca della perfetta fusione tra rock e soul, una traslazione in pelle bianca del R&B. “Do To The Beast” è l’ennesimo disco di Dulli nel suo inconfondibile stile, e ancora una volta Greg è incapace di tornare agli antichi splendori del periodo aureo delle “parrucche afghane”,seppur impossibilitato, per il talento del quale è dotato, a creare musica men che piacevole. Sin dalla prima traccia “Parked Outside” si capisce, però, qual è il difetto di fondo di questo disco, la produzione eccessiva che tende ad appesantire molti dei pezzi del disco, non che Dulli abbia mai lesinato negli arrangiamenti o abbia nascosto la sua propensione alla “grandeur” , ma forse questa volta ha calcato davvero troppo la mano.
“Parked Outside” è un incipit feroce, chitarre distorte che accompagnano il canto, tutto funziona fino a quando non entra un insopportabile assolo di chitarra in delay che nemmeno i Queen. Segue “Matamos” pezzo sorprendente e interessante, il cantato “R&B” si pianta su un roccioso basso distorto, ma anche qui violini elettrici e una componente elettronica abbastanza fastidiosa rendono il pezzo poco aggraziato.
“It Kills” è invece una classica canzone di Dulli, intro pianistico, archi ad accompagnare ed entrata di chitarre distorte a sottolineare i saliscendi emotivi, il cantato sempre più soul è accompagnato da una voce femminile ai cori che più nera non si può.
“Algiers”, il pezzo che ha anticipato il disco è una ballata di discreta fattura e che, ne sono certo, nella mente di Dulli dovrebbe rimandare agli Spaghetti Western del nostro Sergio Leone, non so quanto ne sarebbe contento Morricone, ma tant’è.
Fino a questo punto il disco, anche se privo di canzoni veramente brutte, appare sicuramente deludente, ma “Lost in the Wood” arriva a ricordarci di cosa è stato capace negli anni Greg Dulli, dopo un intro lasciato al piano e alla voce, sempre bellissima, le chitarre arrivano a squarciare l’atmosfera, e ancora dopo tanti anni ci si trova rapiti, la vista appannata e il fiato corto in mezzo al fumo azzurro delle troppe sigarette fumate, da Greg e da noi, una ballata elettrica sublime, un marchio di fabbrica Twilight Singers, i cori femminili sulla coda finale sono una celebrazione, bellissima, intensa, finalmente emozionante.
“The Lottery” tiene ancora alto il tiro, chitarre dal sapore ’90 voce calda e nello stesso tempo graffiante. “Can Rova” è un altro buon pezzo, una ballata eterea che può vagamente ricordare quella che è, a tutt’oggi, il capolavoro dei Twilight Singers “Railroad Lullaby”, il finale lasciato all’orchestra di feedback cara a Dulli viene rovinato da una cassa dritta posta nel finale che oltre essere di dubbio gusto è anche ampiamente fuori luogo.
“Royal Cream” è un altro tipico canone Whigs, pianure e colline, cori e chitarre a rincorrersi continuamente creando quell’intensità di cui solo loro sono capaci. Segue a ruota la piacevole “I’m Fire”, ritmata e delicata, mentre la chiusura del disco è lasciata a “These Sticks” ennesimo pezzo in stile “The Killer” e di immediato rimando al recente passato a nome Twilight Singers, nulla di nuovo, nulla di trascendentale, purtroppo.
Una preghiera: togliete Dave Rosser dagli Afghan Whigs, le sue sviate chitarristiche sono peggio della peste, speriamo che Dulli gli fotta la morosa in velocità così ce lo leviamo di torno.
Avevo molte speranze per questo nuovo Afghan Whigs, speranze legate al fatto che tutti i dischi prodotti da Dulli nel post scioglimento della ragione sociale principale erano stati più che discreti (eccezion fatta per i Gutter Twins) e il mantenimento di quel livello sarebbe stato più che sufficiente per far sperare in un buon disco. Invece Dulli ripresenta il marchio originale consegnando alle stampe il peggior disco dei Twilight Singers, un peccato, ma non ci strapperemo le vesti, anche perché è previsto un peggioramento delle condizioni atmosferiche.
Non solo non c’è una "What Jail is Like" o una "My course" (va bè quella forse non c’è più stata, in generale, nel corso degli ultimi 20 anni) in “Do to The Best” ma ci troviamo un Greg Dulli minore e più attento ad arrangiare ogni strumento possibile invece di dedicarsi alla stesura dei pezzi.
Sempre rispetto per Greg, ma questa volta non ci siamo.
Voto: ◆◆◇◇◇
Label: Sub Pop
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