venerdì 13 febbraio 2015

Sleater-Kinney - No Cities to Love (Recensione)

Siamo tutti consapevoli che, nelle ultime decadi, abbiamo dovuto fare i conti con il processo di invecchiamento dei paladini del punk di epoche più o meno recenti; ma se è relativamente semplice liquidare coloro che invecchiano con poco stile e non crescono, più difficile è confrontarsi con i percorsi professionali e personali dei pochi che, invece, sono diventati adulti. Le Sleater-Kinney, che del punk incarnano tanto l’approccio Do It Yourself quanto la fierezza femminista meno banale, tanto l’ingenuità del college rock sudista quanto la rivincita della maturità artistica riscoperta, avevano legittimamente deciso di porre fine all’esperienza dopo quel fuoco d’artificio di refrain appiccicosi e dissonanze che fu The Woods; dieci anni dopo, la nostalgia o forse il ritrovato tempo mentale e fisico spingono il trio a incontrarsi ancora, per un successore purtroppo non ugualmente elettrizzante, ma capace di difendersi sotto i colpi dell’età e delle insidiose nuove generazioni. Low tuning è la parola d’ordine, non solo nelle chitarre ma anche nella voce: Price Tag tenta un attacco incontinente sulla falsariga di Lora Logic, senza però possederne l’esasperazione; l’incipit condensa tutte le cifre peculiari del disco, che segnano anche il volto meno glamorous e più riflessivo delle ragazze di Olympia: le chitarre angolari combaciano secondo gli schemi del Tetris post punk, senza però poter evitare un inguaribile afflato 90s, impastato di melanconia, risentimento e tantazioni catchy. Loro malgrado, le Sleater-Kinney a tratti scivolano negli anni zero, come in Fangless o in Bury Our Friends, trascinate da un claudicare chitarristico da dancefloor in stile Arctic Monkeys o Franz Ferdinand, pivelli che le tre signore potrebbero permettersi di sculacciare con le cinte delle loro sei corde. I compatti cori hard glam di Surface Envy risvegliano la tensione, come a voler ricordare che Suzie Quatro non fu da meno rispetto alle tante riot grrrl a venire e che le frangette sono sempre sintomo di personalità; la title track e la successiva A New Wave chiudono momentaneamente il viaggio nei 70s per tornare ai più familiari territori della controllata isteria pop wave, tra chitarre ora arabescate e riprodotte in serie, ora sature e granulose. No Anthems è ancor più destrutturata, grazie alla disinvolta malizia della voce divenuta strisciante, prima di tornare alla consueta intenzione battagliera, liberata poi nel campo minato di Gimme Love. Le ragnatele chitarristiche di scuola Tom Verlaine vengono tirate a lucido in Hey Darling; la schiva intelligenza dei Television sembra ereditata anche nella confessione del ritornello (it seems to me the only thing/ that comes from fame is mediocrity) in cui, nonostante l’insolita serenità, Corin Tucker sembra voler aprire una finestra sulle ragioni della decade di silenzio e sulle perplessità e difficoltà relative  al ruolo delle donne nel rock. Forse proprio per cimentarsi con gli stilemi espressivi di certo machismo hard, la conclusione del lavoro è affidata ai vocalizzi articolati e all’epicità di Fade: radicali senza piombare nel clichè, non celano di essere donne e madri che sopravvivono tra la fine del capitalismo e l’agonia dello stereotipo maschile del rock stardom. No Cities to Love è incollato alla vita reale, di cui offre una narrazione eccellente spiccatamente americana: in questo senso è un disco folk, alla stregua di Springsteen o dei Creedence, di cui condivide l’assennatezza degli intenti e la scelta stilistica del vuoto intorno ai pochi suoni, per mettere al centro il grande racconto.

Voto: ◆◆◆◇◇
Label: Sub Pop 

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