A Change is Gonna Come, sembra voler proclamare Gianluca Taraborelli ovvero
l’artista attualmente noto come Johnny Mox in questo suo terzo messale discografico; perché Al Green
non è l’unico reverendo battagliero e il soul non è solo quello delle
parrocchie dell’Alabama e delle rivendicazioni razziali: l’indignazione
dell’anima, la predisposizione alla rivolta e lo sguardo fieramente puntato al
futuro possono attecchire anche in Italia, anche da un innesto sperimentale con
le forme irriverenti del punk. One-man band nel vero senso della parola e
perciò unico nel suo genere, Johnny da sempre si ingegna tra loopstation,
beatbox vocali e cassa di una batteria per celebrare le sue funzioni laiche; in
questo Obstinate Sermons si
avvale di Andrea Sologni al basso, a cui si devono anche le registrazioni,
Mirko Marconi alle chitarre e Alessandro De Zan degli In Zaire al sitar in una
traccia, mentre in tour può contare sulla frangia armata dei Gazebo Penguins.
La chiamata alle armi del
preacher man di Trento è sillabata tra l’invocazione gospel e l’ingiuria hip
hop: in They Told Me to Have Faith and All I Got Was the Sacred Dirt of my
Empty Hands l’elemento black non è quello
afroamericano ma quello del piombo, dell’intransigenza morale incanalata in
messaggi geometrici ed essenziali che collimano perfettamente con la forma
sonora; A War Sermon in meno di
un minuto sciorina un coro gregoriano delle mille identità di Johnny, prima che
le parole vengano sputate tra i colpi di accetta della chitarra in Praise
the Stubborn, raffica di proiettili da
residuato bellico risalente all’epoca dei Jesus Lizards. Pronipote di Eddie
Cochran è invece il blues bianco dell’arpeggio di Ex Teachers, in cui la voce arrochita tenta di avvicinarsi alla
sensualità infera di Mark Lanegan per poi sorprendersi circondata dal codazzo
di cantori maledetti in cui Johnny si moltiplica. O’ Brother esplora i territori a me poco familiari e congeniali
dei Rage Against the Machine, su cui tuttavia è operata quella scarnificazione,
sotto la soda caustica del blues, che riporta tutto a un nucleo vibrante di
rabbia umana, seguita dall’attacco frontale di Endless Scrolling, in cui la voce attua uno sgombero forzato sugli
strumenti. Il riff elastico e le rime fluide di The Winners illudono sull’identità nazionale del Nostro: anche
le fiere rivendicazioni potrebbero smentirne l’italianità, cifra antropologica
troppo spesso affetta da ignavia spirituale. Inaspettatamente, Mox ci tende un
agguato con la caveiana The Long Drape, blues funeral tirato a lucido come se fosse tratto dalle celebrazioni
scheletriche dei Saturnalia dei
Gutter Twins; ancor più lontana dalle forme espressive elaborate da Mox, e a
cui egli stesso ci ha educato negli anni, è King Malik, lungo esperimento di psicheledia sabbiosa in cui la
chitarra desertica accompagna il passaggio di tumbleweed artificiali, spinte
dal vento del beatbox indecifrabile.
Menzione d’onore per l’estetica
classicamente sobria e concettualmente penetrante della copertina e per la
durata, contenuta ma esauriente come quella dei vecchi LP.
Voto: ◆◆◆◆◇
Label: Woodworm/Macina
Dischi/Escape from Today/To Lose La Track/Musica per Organi Caldi/V4V
Records/Strom Records
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