Spesso mi interrogo sul caso che
governa gli eventi, per cui il prog è stato forse l’unico esemplare di musica
italiana degno di esportazione; sin dal fiorire negli anni ‘70 di band talvolta
geniali, talvolta al limite del ridicolo nell’imitazione degli epigoni
anglofoni o nella ridondanza delle immagini e delle trovate compositive, la
storia sembra voler suggerire che i prodotti nostrani trovano la propria
dimensione creativa solo in una forma espressiva in cui la narrazione ha ampio
spazio, di minutaggio e di struttura, di evolversi involversi e svolgersi. Ma
la cosiddetta “Italian Occult Psichedelia” attuale non ama le epopee verbali e
sonore con cui Biglietto per L’Inferno o De De Lind crearono sensazione; le
parole sono ostacoli e le note non si rincorrono variopinte, ma si imprimono
una dopo l’altra come impronte dai confini riconoscibili, sorelle in serie
benché diverse e irripetibili. Nel caso della Squadra Omega, sono le
improvvisazioni protratte in una lunga session di tre anni e la
cristallizzazione del disco in modalità rigorosamente analogica a proiettare Altri
Occhi ci Guardano in un passato atemporale,
in cui l’attualità della musica nella sua preponderate purezza riporta indietro
di decenni o forse secoli. Dopo mesi munifici, in cui il collettivo ha già
regalato Lost Coast, soundtrack
di silenzi e paesaggi e strade perdute percorse a piedi, e Il
Serpente nel Cielo, occhieggiano oggi i
volti subumani del dipinto del 1977 in copertina al disco, quasi istantanea a
olio del bestiario di Bomarzo; Altri Occhi ci Guardano si apre con l’intarsio intricato di suoni e timbri e
sapori di Il Buio Dentro: come fu
per gli Organisation, anche qui il traguardo non è la forma
canzone, perché non c’è traguardo ma, principalmente e con necessità
ineluttabile, decostruzione. Il primo brano si immette come una vena
sotterranea in Sospesi nell’Oblio, dove
pulsar lontanissimi segnano le tappe di una traversata interstellare, solcata
dalla via lattea che la chitarra dissemina con un refrain compiutamente
circolare: perfettamente autosufficiente, gira su se stesso come un primo
mobile, finché il pungolo del synth non rimpiazza la chitarra, che si defila in
un controcanto triste. Sciami artificiali anticipano poi le processioni
apocalittiche di La Nube di Oort,
destinate a evaporare in molecole di atmosfere inospitali; Il
Labirinto riscatta la fetida categoria del
jazz-rock con un incedere minaccioso, abbastanza rudimentale da non scadere mai
nella fusion: il basso sobbalza con movimento sussultorio, i fiati intrisi
d’oppio folleggiano con altri bizzarri rigurgiti inferi o astrali, poco
importa. Giochi di bimbi cannibali introducono alle danze in stile Pop Group
di Sepolto dalle Sabbie del Tempo: il
groove non è sempre solo nero, ma quando è fatto dall’uomo bianco è straniante
come un sogno velenoso sotto cocaina, chimicamente indipendente nel suo tornare
costante sullo stesso ansiogeno riff e condannato a un vicolo cieco di suoni
che si tormentano a vicenda. Poche pennellate cremisi tratteggiano Hyoscyamus, interludio acustico di suoni puri che si dissolvono
nelle vibrazioni dell’aria: solo alcuni minuti sono concessi per questa dejeuner
sur l’herbe in cui, per ingannare il tempo,
non si gioca a carte ma si leggono i tarocchi; la quiete sospesa è presto
spezzata dai ottoni furiosi, figli bastardi di Anthony Braxton,
che introducono all’affollato zoo di Il Grande Idolo, popolato di striscianti percussioni, cinguettii
metallici e sintetici, tutti tenuti a bada dalle placide fruste delle corde. La
carovana bestiale muove infine su rotte orientali, lungo una via della seta
cadenzata e battuta dal vento di distorsioni lontane. La title track è sorretta
da battute da metronomo, sovrastate dal sax anarchico e nottambulo; la chitarra
si unisce alla rivendicazione di indipendenza, tentando di scompigliare
l’impassibile aplomb ritmico. Una lenta, interminabile rivolta a intermittenza.
Ma anche le convulsioni del delirio di suoni si placano in Le Rovine
Circolari, istante di lunatica quiete che
seda e assopisce, in una vaga brezza di arpeggi e campanelli, persino le
intemperanze sonore più estreme: un sonno incosciente a domare la folla di
mostri della mente.
Voto: ◆◆◆◆◇
Label: Macina Dischi/Sound of
Cobra
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