Chi si ricorda i Tupelo Chain
Sex? Pochi hanno memoria, o si sono recentemente imbattuti, nell’ensemble californiano che, in pieni anni ’80, dimostrò come miscelare in un
cocktail ad alto potenziale jazz be-bop country folk blues trash punk ska surf
jive latin calypso rythm‘n’blues psychobilly senza assolutamente prendersi
sul serio. Perché, con buona pace delle schiere di cantautori originariamente
tali o evolutisi dopo militanza nell’indie nostrano, che oramai dominano con il loro costante impegno nel fissare il proprio ombelico e nel
cantarne, un artista fa il proprio dovere quando padroneggia la narrazione,
quando i grandi racconti hanno la meglio sul privato individualista e, soprattutto,
quando sa farsi da parte con una generosa dose di autoironia; questo è l’ingrediente segreto che permette alla varietà di intuizioni sonore e
suggestioni musicali di dischiudersi, senza fermarsi alla trappola stanca di
reiterati stilemi generazionali.
E benché Bergamo non sia Los
Angeles, Le Capre a Sonagli con questo disco, soundtrack di un film
d’animazione a episodi realizzato con la collaborazione artistica degli stessi
ovini in questione, espongono un’opera ascrivibile al dadaismo più puro, in cui
la bizzarria degli elementi non impedisce ma anzi concilia la creazione di immaginari paesaggi esotici quali scenari da film mentale. Richiamando i
fotogrammi per cui è stato concepito ma allo stesso tempo srotolandosi come
narrazione autonoma, Il Fauno si apre
con l’arpeggio di Celtic segnando
subito il confine della frontiera di un folk-blues cialtrone, in cui acustico
ed elettrico si abbracciano in una danza arcaica; il limite è però spostato
verso i territori dell’exotica lo-fi con le corde e le percussioni ridotte
all’osso di Ciabalè, mappa per
esploratori di giungle impenetrabili. Il sordido blues waitsiano di Tre
e 37 non rischia mai di scadere
nell’emulazione, grazie all’immediata essenzialità degli arrangiamenti, mentre
il dittico Demonietto nell’organetto
e Serpente nello stivale si muove
tra la sordida filastrocca, lercia di polvere desertica, e la commistione di
suggestioni tex-mex e cavalcate ritmiche da spaghetti western. Le ragnatele di
chitarre e l’inintelligibile voce filtrata di Giù guidano senza soluzione di continuità alla
paradigmatica Nonno Tom,
breviario con cui Le Capre potrebbero insegnare ai tanti autoproclamantesi
luminari dell’indie nostrano come scrivere perfetti refrain che sanno
d’America; dopo il carillon alcolico scandito da micro-samples di Uhaa!, in Slow
irrompe un arpeggio acustico come un istante di quiete inattesa, su cui si
staglia la voce impastata di sillabe incomprensibili. Il blocco conclusivo è
una caleidoscopica e immaginifica wunderkammer tra le foreste di percussioni e i grugniti ferini di Pausa Pranzo,
il riff insistente e lurido di Anatra, la cupissima balera del divertissement Bobby Solo, che apre la finestra sulle italiche melodie da boom
economico contaminandole con elementi manouche, la marcia funebre di Joe: Le Capre scelgono tuttavia di chiudere con Goo
Porpacuttana, collage anarco-electro di
giocoleria sonora, dimostrando di essere tutt’altro che bestie pavide.
Voto: ◆◆◆◇◇
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