mercoledì 25 novembre 2015

Intercity - Amur (Recensione)

Oggi inizierò parlando della mia autoradio. Sapete, quella cosa con cui si ascoltano i dischi in macchina, residuato bellico per chi ormai si compra una macchina nuova da qualche anno a questa parte visto che c’è il computer di bordo. L’autoradio me l’hanno fregata due volte, ho rischiato anche che me la fregassero una terza ma i simpatici ladruncoli che mi hanno aperto la Uno si sono accontentati di uno zaino con le mie mutande (non crediate di essere al sicuro voi tecnologicamente avanzati, fregano anche i computer di bordo, ad un mio amico è successo). Ora non ho più una Uno ma una fantastica Seat Ibiza, bicolore perché sono andato in culo ad uno e con una fiancata rigata per vari motivi (non ultimo il cancello della ditta dove lavoro che ha cercato di entrarmi in macchina), ma visto che i computer di bordo dieci anni fa erano ancora una cosa costosa ho sempre un’autoradio, però con la chiavetta usb. Ora, cosa c’entra tutto questo con gli Intercity? Cosa hanno fatto di male per meritare un cappello introduttivo così idiota? In realtà hanno fatto solo del bene, e lo shuffle in macchina ha fatto bene a loro: perché Amur è un album fra i migliori ascoltati in tutto l’anno, ma ad attirarmi particolarmente è stato il fatto che fra tutte le canzoni che poteva scegliere la mia autoradio da far partire a caso ha scelto Teatro Sociale e Kyoto, probabilmente le migliori del lotto.
La storia degli Intercity parte da lontano ed è stato con un certo stupore che ho scoperto il loro legame diretto con gli Edwood, gruppo ascolticchiato negli anni 2000 di cui ho sempre adorato il nome (se non sapete da cosa deriva non siete degli appassionati di cinema trash d’annata come il sottoscritto). Una bella rivoluzione è intercorsa dal precedente Yu Hu, tanto che solo la base storica dei fratelli Campetti (Fabio voce e chitarra, Marco all’altra chitarra) è rimasta a tenere alta la bandiera: ecco così che, pur mantenedo un legame col passato tenuto saldo soprattutto dalla voce pacata di Fabio, si trovano strade nuove che passano soprattutto dal violino di Giulia Mabellini. E’ infatti questo l’elemento che più mi ha colpito, inserito negli arrangiamenti in maniera precisa e funzionale, non un orpello estetico messo lì per fare numero (mi è capitato di sentire band che lo fanno, fidatevi) ma un elemento essenziale afruttato tanto bene quanto non mi capitava di sentire da quando mi capitò fra le mani il secondo disco degli Io? Drama. E’ anche grazie al suo apporto che momenti più zoppicanti come la ripetitiva Tu acquistano più valore, o che episodi già di per sè validi come la già citata Kyoto assumono, nei ritornelli, una valenza emozionale quasi commovente. E questo è solo uno dei pregi del disco.
Perché, violino o no, Amur è pieno zeppo di bei pezzi. Prendi il ritmo in levare di Reggae Song, che tutto porta alla mente con la sua atmosfera nostalgica tranne che le assolate spiagge caraibiche (“nuovi Don Chischotte ascoltano reggae”, pur nella sua stranezza, è una frase che mi metto a cantare ogni volta che la sento), la carica elettrica esasperata dal basso distorto e dalle voci confuse di Cavallo, l’andamento in crescendo continuo di Teatro Sociale, la malinconia palpabile di Amur, la grinta dei ritornelli di A...gli esempi positivi sono talmente tanti che si fa prima a dire cosa non funziona. Il finale fin troppo morbido con Le Avanguardie, ad esempio, un modo di concludere il disco che lascia un poco l’amaro in bocca, o l’esagerazione in qualche caso di effetti sulla voce che rendono confuse le linee vocali (Cavallo, particolarmente nei ritornelli, ne è l’esempio più lampante, ma anche le doppie voci dell’iniziale Un Cielo Cinghiale nella seconda parte presentano marcatamente lo stesso difetto, spiacevole dal punto di vista della comprensione dei testi ma assolutamente efficace come carica adrenalinica): la voce di Fabio, invece, funziona ottimamente col suo tono naif fra un Bianconi ed un Colapesce, riuscendo abilmente a variare intensità fra le note acute dei ritornelli di Indiani Apache, il tono mellifluo di Amur e la grinta sfoggiata ad esempio in Cavallo e nei ritornelli di A.

Parlando ieri con un ragazzo conosciuto ad un concerto ricordavo una recensione, scritta un paio d’anni fa, dove mi “lamentavo” di un disco dicendo che era un peccato che mi fossi già giocato l’album dell’anno a gennaio. Amur arriva invece come la lieta sorpresa di fine anno, ed è valsa la pena che le mie orecchie attendessero tanto per goderne: arrangiamenti ottimi, varietà musicale che non pregiudica l’improsi di uno stile personale, liriche accattivanti che, pur con qualità altalenante, ti entrano subito in testa senza volerne uscire. Mi gioco le cinque stelle perché, rileggendo quanto scritto, mi accorgo che non ho potuto dire molte volte negli ultimi anni le stesse cose di un disco, e me ne compiaccio molto.

Voto: 
Label: Orso Polare Dischi



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