Il concetto di "controra" è uno dei più affascinanti dell'Italia meridionale, quasi come la "siesta" messicana, ma con un senso di spossatezza e di fatalismo maggiormente evidenziati. Il momento più caldo della giornata, nel quale, spesso e volentieri, si viene risucchiati in un vortice di apatia, sospesi tra le braccia di Morfeo e una veglia che va a sciamare lentamente assieme alla lucidità di pensiero. "Canzoni della Notte e della Controra", il primo disco solista di Umberto Palazzo, è un paesaggio sonoro suggestivo e tridimensionale.
Un viaggio che, partendo dalle sensazioni della controra, dove, trasportati da un dormiveglia evanescente, si galleggia su umori apatici tra il riflessivo e l'allucinato, ci trasporta fino al calar del sole, nell'immaginario di un sud Italia mai così suggestivo e magico. Un'opera minimale, sonnacchiosa, impalpabile. Pochi elementi sonori sui quali si eleva la voce bassa e tenebrosa di Umberto, unico protagonista. La chitarra sempre pulita, riverberi fluttuanti, percussioni (quando vi sono) suonate su lastre di metallo come vuole la scuola industriale, sonorità che spaziano dal pop anni'60 alla musica etnica (non a caso Palazzo insegnava al corservatorio storia della popular music) echi che trasportano alla deriva le coscienze senza che si abbia minimamente la forza di opporvisi. Un album partorito da esigenze molto vicine alla piena maturità artistica di Umberto Palazzo che, dopo la parentesi tex-mex del Santo Nada, ritiene di dover esternare la sua carica creativa in un'opera molto personale nelle sonorità ricercate, avvalendosi solo dell'aiuto di pochi e fidati ospiti, come Sandra Ippoliti, Tying Tyffani, Luca D'Alberto e Gianluca Schiavon. Brani febbrili e malinconia per i posteri sui quali aleggia onnipresente l'ombra di Morricone, ("Cafè Chantant") con elementi e stilemi da suggestione mariachi in una sorta di vademecum della cultura meridionale italiana che va quasi ad accostarsi, in modo visionario, ad i paesaggi del vecchio West. Folk casalingo, afoso e rustico come la campagna della provincia, condito da elementi post (la splendida "Aloha" ripresa dal "Fiore dell'Agave" del Santo Niente) che ben sposano il senso di arrendevolezza di certe parole ("Io vi amo maledetti. Io vi amo tutti") Parafrasando lo stesso Umberto Palazzo, "il mondo è un grande imbroglio e io non riesco a ridere dell'assurdità del male" (Luce del Mattino) e, una volta arrivati alla title track, (Fabrizio De Andrè suonerebbe così oggi se fosse ancora con noi) appare volutamente sincera la consapevolezza del proprio esser deboli, schiavi di una mente da sconvolgere, annegare in euforia e conseguente perdita di lucidità. "Che tu abbia visioni. Tranquillo dormiveglia e frenesia d'amore..." Arriva il crepuscolo, poi la notte e con essa la morbida ballata di "Acchiapasogni" che chiude sonnabolica, con tanto di musa languida ed eterea (Tying Tiffany) un lavoro audace e artisticamente sincero nel proporsi come il sunto creativo di un artista fondamentale per la musica indipendente italiana come Umberto Palazzo. A lui va il grande merito di aver enfatizzato nei suoi lavori più recenti e maturi, le fascinazioni di un meridione, terra natia mai così vivida, intensa, fonte d'ispirazione ed eleganza tangibile.
Un viaggio che, partendo dalle sensazioni della controra, dove, trasportati da un dormiveglia evanescente, si galleggia su umori apatici tra il riflessivo e l'allucinato, ci trasporta fino al calar del sole, nell'immaginario di un sud Italia mai così suggestivo e magico. Un'opera minimale, sonnacchiosa, impalpabile. Pochi elementi sonori sui quali si eleva la voce bassa e tenebrosa di Umberto, unico protagonista. La chitarra sempre pulita, riverberi fluttuanti, percussioni (quando vi sono) suonate su lastre di metallo come vuole la scuola industriale, sonorità che spaziano dal pop anni'60 alla musica etnica (non a caso Palazzo insegnava al corservatorio storia della popular music) echi che trasportano alla deriva le coscienze senza che si abbia minimamente la forza di opporvisi. Un album partorito da esigenze molto vicine alla piena maturità artistica di Umberto Palazzo che, dopo la parentesi tex-mex del Santo Nada, ritiene di dover esternare la sua carica creativa in un'opera molto personale nelle sonorità ricercate, avvalendosi solo dell'aiuto di pochi e fidati ospiti, come Sandra Ippoliti, Tying Tyffani, Luca D'Alberto e Gianluca Schiavon. Brani febbrili e malinconia per i posteri sui quali aleggia onnipresente l'ombra di Morricone, ("Cafè Chantant") con elementi e stilemi da suggestione mariachi in una sorta di vademecum della cultura meridionale italiana che va quasi ad accostarsi, in modo visionario, ad i paesaggi del vecchio West. Folk casalingo, afoso e rustico come la campagna della provincia, condito da elementi post (la splendida "Aloha" ripresa dal "Fiore dell'Agave" del Santo Niente) che ben sposano il senso di arrendevolezza di certe parole ("Io vi amo maledetti. Io vi amo tutti") Parafrasando lo stesso Umberto Palazzo, "il mondo è un grande imbroglio e io non riesco a ridere dell'assurdità del male" (Luce del Mattino) e, una volta arrivati alla title track, (Fabrizio De Andrè suonerebbe così oggi se fosse ancora con noi) appare volutamente sincera la consapevolezza del proprio esser deboli, schiavi di una mente da sconvolgere, annegare in euforia e conseguente perdita di lucidità. "Che tu abbia visioni. Tranquillo dormiveglia e frenesia d'amore..." Arriva il crepuscolo, poi la notte e con essa la morbida ballata di "Acchiapasogni" che chiude sonnabolica, con tanto di musa languida ed eterea (Tying Tiffany) un lavoro audace e artisticamente sincero nel proporsi come il sunto creativo di un artista fondamentale per la musica indipendente italiana come Umberto Palazzo. A lui va il grande merito di aver enfatizzato nei suoi lavori più recenti e maturi, le fascinazioni di un meridione, terra natia mai così vivida, intensa, fonte d'ispirazione ed eleganza tangibile.
Voto: ◆◆◆◆◆
Label: Disco Dada
1 comments:
Sono passati 3 anni. Questo disco non ha portato niente di nuovo. Palazzo ha recentemente annunciato di voler smettere di cantare, e nessuno (tantomeno Michele Montagano) gli ha chiesto di tornare sulla sua decisione. Neanche una recensione così retorica e roboante ha contribuito al successo di uno che si crede un musicista, ma che a mio avviso (come me) non potrà mai dare un contributo alla musica. Per incapacità espressiva, pochezza tecnica e senso estetico della bellezza inesistente. A me ha sempre dato l'impressione di essere la versione moderna di Assurancetourix, il bardo di Asterix. Non siamo tutti artisti, e neanche Palazzo. Con me e Palazzo madre natura è stata avara di doni artistici. Uno di noi però non se ne è reso conto.
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.