Ho avuto per le mani quest’album così a lungo, che non mi pareva vero di poter buttare giù qualche parola a riguardo. The Whole Love è un mondo a sé, è un whole, è un intero. L’opera ultima di Jeff Tweedy e soci – in arte Wilco – è un prodotto di una band che ‘sa il fatto suo’ , nel senso che ha un proprio stile, unico e forse stavolta un po’ più country; si propone come un tema ben compiuto : ha un suo inizio, un suo svolgimento e una sua fine.
Al cuore di tutto c’è l’amore, tutto l’amore, o meglio, l’amore intero, che si estende per ben dodici track senza perdere mai l’impronta originaria: un sorriso sornione mai forzato, ma sinceramente positivo che si riafferma in quasi ogni pezzo, un po’ Tom Petty , un po’ boogie ( vedi pezzi come I Might o Born Alone ) ma anche altro. L’amore per intero dei Wilco va per stanze, città, vede giorno e notte; passa da digressioni progressive rock dell’intro track Art Of Almost a ballate soft e ‘sognate’ quasi al modo di una liceale al suo primo ballo come Sunloathe ( magari facendo un po’ il verso agli Air ). Art of Almost è un chiaro tributo radiohediano ( se ti metti a dialogare con i massimi sistemi mentre sperimenti nuovi orizzonti musicali, si sa, Yorke è un po’ come il medium a cui devi necessariamente riferirti ) apre il sipario come una genesi biblica condita di fine elettronica e citazioni letterarie - I can’t be so far from my wasteland è un chiaro riferimento a Eliot.
Quindi, The Whole Love si mette in moto, circumnaviga il globo, cambia tono. Un po’ come il sole sorge e tramonta, in un circolo vizioso naturale e mai sofferto, Dawned on me dice che I can’t help if I fall in love with you’ se mi albeggi contro, ed il tono è scanzonato di una prima mattina di carica. La carica è la stessa che si addormenta, si assopisce senza diventare troppo malinconica in Black Moon, come un’immagine che si allontana nel buio di una notte di luna nuova. Senza perdere mai la carica un po’ da marcia, Borne Alone sigilla i due momenti ricordandoci, come fece Ligabue una volta, che, in fin dei conti, nasci solo e solo andrai; allora viene Open Mind, ed eccolo che canta con il piglio di un viandante in una locanda della via,come lo immagino un po’ country un po’ stereotipato dietro il suo microfono e alle spalle il suo complessino, ad allietare le coppie con i suoi accenni di assolo di basso.
Capitol City è la ripresa del viaggio, un po’ passare per una Las Vegas piena di luci, ironica , un po’ foxtrot ma non troppo, sempre disincantata – You wouldn’t like it here, no, la sua donna dovrebbe stare lì, a respirare in quell’aria di campagna. O meglio, dovrebbe essere lui lì. Dopo la chiusa di campane di chiesa, Standing O viene avanti corposo a suon di organo, di corsa come ad un appuntamento , in ritardo magari. Stempera il tutto con Rising Red Lung, si incanta in One Sunday Morning, ballata dolce dal ritornello – un gioco di note sulle corde che poi diventano tasti, di piano e xilofono – vagamente ipnotico e interminabile: dopo dieci minuti continua a reiterarsi come una speranza un po’ patetica, un po’ immortale , come un carillon rotto e che continua a ripetersi.
Con pur tante influenze, è un lavoro unico, da chiamare col suo marchio, Wilco, ecco. C’è una completezza, una circolarità in questo album che va oltre il nome, il concetto e persino la sua copertina. È l’idea. In fondo è questo The Whole Love: una storia mai finita, circolare quindi perfetta, a volte desolata, mai sconfitta, fatta di ritornelli e di cariche, come anche di pause e tempo per riposare dagli eroici furori. Perché l’amore stanca, e non ci stanca mai del tutto; non abbandoneremmo mai del tutto un amore, come non ci scorderemmo mai di una canzone. Forse non ricorderemmo Wilco per quest’album, ma per quello che mi ha ricordato in tante volte che l’ho ascoltato. Che l’amore, quello vero, è l’amore intero.
Voto: ◆◆◆◇◇
Label: dBpm Records
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