Cercando Three Blind Mice su
wikipedia viene fuori di tutto. Una nursery rhyme, racconti di Agatha Christie, album ed etichette
jazz, perfino qualcosa di Brian Wilson
dei Beach Boys. Tutti specchietti per le allodole, giacché gli occhi dei The Three Blind Mice sono rivolti alla
frontiera, che sia quella statunitense o quella, meno reclamizzata ma
ugualmente suggestiva, dell’outback australiano. Calexico e Nick Cave
infatti i primi nomi che vengono messi a paragone con questa band italiana
emigrata in Germania, il cui percorso musicale iniziato nel 2009 resta sì
debitore verso i maestri ma, mischiando blues, country e post punk, trova
comunque una strada personale all’interno del panorama musicale.
L’inizio con River Of No Return è sicuramente la miglior cartolina possibile.
Tensione palpabile fin dalle prime note, con la voce ombrosa di Manuel Scalia perfettamente a suo agio
su quelle tinte cupe, la canzone di apertura è un perfetto congegno ad
orologeria in cui basso e batteria viaggiano all’unisono aspettando ansiosi che
una chitarra impazzita deflagri nei momenti giusti e che la voce si impenni
fino all’aggiunta dei cori nel finale. Non è l’unico episodio dell’album a
vantare una costruzione così abile, basta saltare a Berlin Blues e al suo incedere lento e sofferente (a cui dà una
grossa mano l’armonica) che riesce a trovare piena espressione nel minuto
scarso in cui le distorsioni si permetono di alzare la voce, o direttamente
alla conclusiva Gospel Train, dove
una leggiadra voce femminile duetta con Manuel su strofe dense di immagini da
Far West e ritornelli scarni dal respiro epico. Sono questi gli episodi
migliori di un album di cui non si discute la qualità, sempre alta, quanto l’ispirazione
altalenante: Ring Song stoppa in
maniera meno efficace della traccia conclusiva una strofa westerneggiante con
ritornelli lenti e mal amalgamati, Wine
Song è una cupa ballad a cui solo qualche rada nota di piano concede un po’
di personalità, Sailor Song si lancia
nel country più scarno e rurale senza destare però emozioni come in altri pezzi.
Il mestiere è però dalla loro parte, ed è per questo che funzionano invece
altri brani come We’re Strangers,
dove il mood country melodico dei ritornelli viene controbilanciato da un
andamento sincopatico che rende piacevole l’ascolto, o Neon Lights, che stacca notevolmente dalle atmosfere polverose del
resto del disco per proiettarci negli anni 80 con un basso rotondo ed un
incedere dolce ed ammiccante che ricorda i Roxy
Music. Buona la prova anche nella cover di Lee Hazlwood The Night Before,
in cui il suono si fa più roccioso senza arrivare però alle vette toccate con
la traccia d’apertura.
The Chosen One è un ottimo album,
che colpisce a fondo in specifici momenti e riesce con abilità ad uscire a
testa alta anche dai momenti meno intensi. Forse un po’ al di sotto del voto in
calce, ma di sicuro meritevoli di più che una risicata sufficienza, vista l’abilità
con cui sono riusciti in pochi anni a creare un suono personale e dal marcato
accento internazionale. Col passare degli ascolti vien sempre più la curiosità
di vedere come e se riusciranno a portare tanto pathos anche dal vivo, staremo
a vedere.
Label: Pale Music
Voto: ◆◆◆◆◇
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