giovedì 1 dicembre 2016

An Harbor - May (Recensione)

La prima parola che mi è venuta in mente ascoltando May è stata ‘internazionale’. Come suoni, come arrangiamenti, come gusto e, soprattutto, come produzione, perché l’album d’esordio del piacentino Federico Pagani, nome di battaglia An Harbor, è probabilmente il disco italiano meglio confezionato che abbia mai ascoltato così a memoria. Sarà complice una voce che mi fa venire in mente i Maroon 5, ma uno qualsiasi dei pezzi di May non sfigurerebbe nell’airplay radiofonico di qualsiasi grande emittente, senza che nessun elemento faccia pensare ad una provenienza italiana.
Prendete ad esempio Like A Demon: piano sornione a menare le danze, batteria triggerata in sottofondo, synth che escono alla bisogna nei potenti ritornelli e voce femminile (splendida, di Giulia Bonomelli aka Tight Eye) a duettare con Federico a due terzi del brano, giusto per dargli quella spinta in più. In otto pezzi An Harbor mette tanta di quella capacità di azzeccare il motivetto orecchiabile che ti vien da immaginarlo chino sulla scrivania, chitarra sulle gambe, intento a scandagliare il modo di arrivare a più orecchie possibili, e devo dire che questa visione mi ha perseguitato per un po’ nell’ascolto dell’album: tutto è talmente rifinito infatti che a tratti dubitavo della spontaneità del lavoro, avviluppato in una rete di suoni che saccheggiano a piene mani da quanto va per la maggiore al momento (un esempio su tutti: il vocoder utilizzato in certe parti di Shine Without A Light che, per compensazione, coi suoi sette minuti di durata e la metamorfosi ritmata alla Empire Of The Sun del finale rappresenta l’episodio meno proponibile radiofonicamente), ma resta il punto che è fatto talmente bene che non si può evitare di applaudire. L’anima dell’artista emerge comunque a tratti in un brano come Not Made Of Gold, voce e chitarra acustica per un intimismo musicale che si rinforza d’emozione quando la chitarra elettrica si unisce in un fraseggio, semplice ma d’impatto, per un breve momento, o nell’altrettanto scarna Come Armed Or Come Not At All, dai ritornelli più sbarazzini. Federico cavalca e mischia i generi sapientemente, unendo nell’iniziale Minevra Youth Party il rock d’impatto dell’apertura col pop dal marcato sapore anni 80 evocato dal piano e soprattutto dal synth, passando dall’intimismo piano-voce al sovraccarico di basse in The Highest Climb. By The Smokestack, canzone con la quale si è fatto conoscere ad X Factor, è poi il perfetto brano da classifica, mutando anima e suoni in continuazione e con efficacia assoluta (basti pensare al cambio di suoni della batteria nei diversi ritornelli): impossibile da non cantare.
Dopo aver elogiato il disco in lungo ed in largo mi sento un po’ ipocrita a non dare il massimo dei voti, ma per una volta il voto che metto in calce è quello personale e non il giudizio critico: nel suo essere un perfetto congegno ad orologeria pronto ad esplodere nelle orecchie dell’ascoltatore, per poi rimanervi a lungo, May a parer mio lascia per strada un po’ di quell’immediatezza ruspante di cui io sono drogato, e quel punto in meno è dovuto solamente a questo. Tutto ciò non toglie che un album del genere fa ricredere chiunque pensi che in Italia non si possano fare le cose fatte bene come all’estero, e non stiamo neanche parlando di produzioni milionarie ma di uno che si è rotto il culo da sé e si è guardato bene in giro per capire come, quando e dove fare le cose. Sicuramente un album da ascoltare, anche solo per questo.   

Voto: ◆◆◆◆◇
Label: This Is Core Records/ Believe



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