venerdì 27 aprile 2012

Spiritualized - Sweet heart, sweet light (Recensione)

Non credo che, scientificamente, esista qualcosa di simile, eppure, ascoltando “Sweet heart, sweet light” il pensiero dominante è stato quello di una distorsione al cuore. Un dolore quasi dolce, capace di dilatare il respiro e i movimenti. Il nuovo degli Spiritualized è così: canzoni che colpiscono come fitte rapide e intense, seguite da altre, la cui lentezza delicata è paragonabile alla calma cui ci si abbandona dopo uno sforzo imprevisto. Proprio loro che ci avevano abituati a ben altre distorsioni, quelle delle proprie chitarre in “Ladies and Gentleman we are floating in space”, non assenti nell'ultimo album di Pierce e soci, ma immerse ancor di più nelle sognanti atmosfere di uno space rock che sa essere malinconico e spensierato al tempo stesso.


“Huh?” è la spiazzante partenza – archi e fagotti dall'amena eleganza campestre – di un viaggio psichedelico che procede verso “Hey Jane”, brano perfettamente bipartito tra incipit strutturato con ritmiche che costringono a ballare e il puro delirio di una jam session fumata e sbronza nella seconda parte. Si prosegue poi tra momenti di quiete in forma di ballad (“Little girl”, “Life is a problem”, l'emozionante “Too late” che è insieme ascesa mistica e sconforto terreno) che si alternano al totale discioglimento di ogni nostra certezza in brani dai suoni acidi. Esempio lampante: “Get what you deserve”, un ronzio che arriva da lontano, la batteria soffocata e sottomessa alle profezie della voce e alle chitarre ipnotiche. O ancora, “Headin' for the top now”, in cui la ripetizione di sintagmi sonori sposa perfettamente i numerosi accenni di deviazione dal percorso precostituito ad opera di fiati e tastiere. Quando Mr. Spaceman innesta alle sue distorte ossessioni la spiritualità dei cori soul, il risultato è un pezzo come “I am what I am”; quando invece le chitarre si addormentano, ciò che resta è sangue e anima, preghiera. John Lennon benedice dall'alto gli Spiritualized per aver scritto “Freedom”, il piano che scandisce i versi iniziali di “Mary” ruba la precisione metodica ad un cuore fedele che recita il rosario dell'attesa sul finire del giorno. Per sconfinare poi in quel crescendo di melodia e introspezione a viso scoperto rappresentato da “So long you pretty thing”, ultima stazione di una via crucis che, come ogni viaggio tra le pieghe dell'anima, non può non procurare dolore. Ma non esiste dolore più splendido di una distorsione al cuore.


“Sweet heart, sweet light” non è un album dominato dai contrasti tra dissolutezza psichedelica e bisogni ascetici, ma la luminosa icona che dimostra che perdersi, ritrovarsi ed elevare se stessi siano passi consequenziali tra loro. Salvo poi smarrirsi ancora e, come in un loop spirituale, ricominciare da capo: esattamente ciò che consiglio di fare, per mille o più volte, con l'ascolto di quest'album bellissimo.

Voto: ◆◆◆
Label: Double Six Records



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