E’ davvero difficile trovare dei motivi per non avvicinarsi ad un disco come questo omonimo e primo passo discografico – nonostante gli anni di carreggiata - dei romani Chlorophyl*; già dalla copertina nebbiosa e sfuggente qualcosa presumibilmente a raso del circuito indie si fa intendere, e poi, una volta messo a girare sotto l’occhio sensibile del lettore ottico, tutto prende forma e concentrica bellezza, una concretezza fluida che bascula tra pop-wave teso su quegli amarognoli ritardi di feedback che vanno ad intrecciarsi amorevolmente con le tricologie arruffate di Robert Smith come ad una certa area Californiana morbidona che allunga il respiro fuori limite, ma se cerchiamo una completezza o una sottile assonanza, possiamo benissimo rimanere – con questa bella compagnia formato album – in Terra d’Albione tranquillamente.
Ma sostanzialmente nove tracciati cromaticizzati e concentrati nell’amarezza agrodolce che trova il cerchio perfetto nell’armonia decadente, in quei “bronci tirati” che disegnano gli Ottanta come un alito sul vetro, appannati, morti fuori e vivi dentro, gli ansimi di una capacità alchemica di dare senza scomporsi, onde elettriche e liriche monocrome che arrivano, passano e partono come gli odori di una notte infinita; capitanati da Cristiano Del Rossi - voce e chitarra ritmica – i Chlorophyl*, rigorosamente con l’asterisco a tergo, sono una bella proposta, fuori da quegli insopportabili allenamenti di muscoli e cervello ad alta dispersione elettrica che inondano oramai ogni quadratino underground, qui ci sono giri di basso talmente morbidi da divenire un mantra “Yellow leaves”, arpeggi di chitarra ieratici e senza peso “Leaving today”, “Field of unfairness”, stupendi fuori pista touch & go che riportano prepotentemente nel sangue i globuli insaziabili dei “tocchi” di un Frusciante solista “Laugh and coffee” e le densità emotive di Kiedis (RHCP) “A small place”.
Dicono che la musica debba passare categoricamente per le impressioni d’arrangiamento che i nuovi progetti sonici – meglio sonori – stabiliscono come un disegno da fare a tavolino in modo che l’ascolto non si possa basare più sulla pelle, ma sulle intenzioni; non stiamoli ad ascoltare questi falsi profeti del marketing, preferiamo farci violentare di piacere le orecchie con dischi come questo dei nostri romani, farci stuprare di dolcezza con la loro essenza e la loro clorofilla poetica, che, senza scommetterci sopra nulla, ce li fa già considerare – e solo con un debutto – piccoli grandi diamantini off da tenere stretti..
Voto: ◆◆◆◆◇
Label: Autoproduzione
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