“Harakiri”, il terzo ordigno creativo di Serj Tankian, leader dei System Of A Down, mette d’accordo tutti, o quasi; nomade del rock per vocazione e sviluppo interiore, è passato con scioltezza massima (fuori della sua avventura con i SOAD) dal punk all’ossido del metallo più intransigente, dall’hardcore da puttanaio alla sperimentazione jazzy del Fucktronic Project, e tante altre direttrici incontrollate, e lo ha fatto in preda a quella bellica malattia che si chiama creatività, malattia che prende oramai pochi soggetti nel rock, o perlomeno non se ne avvertono sintomi concreti; disco in cui l’artista conserva la sua poetica sovvertitrice del non stare zitto sui vari mali che insidiamo e torturano la società, il mondo e l’uomo come entità, undici schegge che oltre a spremere il cervello dell’ascolto, scudisciano lasciando segni ed abrasioni dentro e fuori, tracce dove gli istinti “dolcemente selvaggi” si rivelano senza nascondersi, un susseguirsi di barlumi e folgori che illuminano come traccianti luminosi le coscienze sporche, laide di tanti, di molti.
Uno spirito apolide quello di Tankian, zingaro degli stili, curioso di tonalità screziate e nella testa la voglia ostinata di stupirsi e stupire, nel sangue il suono della ribellione, del “peccato originale” “Cornucopia”, “Figure it out”, l’ansia struggente “Ching Chime”, le doppie pedaliere ossesse “Uneducated Democracy”, mentre negli ormoni estasiati dalle influenze aperte al mondo corrono l’epicità di matrice progressive “Butterfly”, “Reality TV”, il pop controcantato “Deafening silence” e la finale “Weave On” , hard rock con tutti i crismi canonici 70/80’s,; in poche parole un lavoro discografico che non smentisce il contagio sonante che Tankian prende e rilancia come in un ciclico tzunami sonico che – se proprio farà storcere le bocche dei puristi SOAD – piace e piacerà sia ai critici anti-ortodossia che a nuovi adepti in cerca di spiragli “concreti” da intercettare e capire nella sua musica.
Esemplari nella loro certezza diversa queste undici tracce, che portano come ascendente il crossover, animano la rappresentazione della non omologazione, urlano un ambiente ed una umanità da salvare, un mondo “sonoro a parte” che l’artista di origini armene vuole graffitare come una simbologia che rompe il monopolio del sound unidirezionale, e lo fa in men che si dica, aprendo un po meno il loud degli amplificatori e dando mandato al pensiero di allargarsi a dismisura, spesso anche dove un sole non arriva mai.
Come per tutte le sue opere solitarie, Harakiri è fantasticamente “diversamente abile”.
Voto: ◆◆◆◆◇
Label: Reprise 2012
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