Piovono pietre nel 2003 a Ferrara. Un gruppo di ragazzi sferra il balzo della tigre d’una qualsiasi amicizia ed aggredisce un sogno comune a molti aspiranti protagonisti della scena alternativa italiana, realizzando nel giro di questi quasi dieci anni di demo, Ep, album e concerti d’un rock di matrice punk-noise che sfocia, anzi, affonda nell’alternative rock italiano. Affonda perché i nomi di qualità sono molti, l’attenzione della gente è altrove, e perché manca ancora il graffio non comune, di cui vi parliamo oggi. Si, perché Devocka è una parola slang anglo-russa ed è il modo in cui Alex, il drugo protagonista di “Arancia Meccanica”, chiama le ragazze, ed oggi è anche il nome del gruppo autore d’un disco non comune, citazionista senza velleità e con un raro senso d’urgenza capace di penetrare lo strato di rumore vuoto che la modernità sfiancante stende intorno a noi in questi anni senza sole. Appunto, “La morte del sole”.
Passando da atmosfere sommesse a scatti d’ira, tra CCCP, Santo Niente, Joy Division, Jesus Lizard, Sebadoh, Ulan Bator e i tanti altri gruppi che i Devocka hanno nelle orecchie e nelle corde che i nostri decantano senza alcuna ambizione pretestuosa a la “Io so io e voi nun siete un cazzo” de Il marchese del grillo, il debito di riconoscenza assoluto è coi Massimo Volume, in alcuni tratti così palese che suonerebbe imbarazzante se solo “La morte del sole” contenesse intuizioni musicanti meno brillanti, mature e compatte. D’altronde è anche attraverso questi passaggi di consegna che gruppi come Massimo Volume, Santo Niente e Fluxus possono finalmente apparire per ciò che sono solo molti anni dopo il loro tempo, e che nel secondo e terzo caso non è neppure adesso, o almeno non per troppi: un riferimento inevitabile per chiunque in Italia venga anche solo sfiorato dall’idea di suonare rock alternativo di qualità.
“Morte Annunciata dell’Io” scuote l’avvento dell’opera: una filippica scossa e grigia contro un santo niente a cui viene consacrato ogni moto d’un Io che è già defunto sotto i colpi del presente ancor prima di diventare futuro. Alcune scelte vocali non strabilianti rompono l’incredibile equilibrio della furia strumentale, e proseguiranno per tutto il disco (non è che forse si urla troppo e a sproposito nella musica alternativa italiana?). L’incipit di “Non Solamente Un’Apertura Mentale” conferma queste impressioni sull’aspetto vocale della band, pur intonando una feroce domanda che è pura poesia su uno sfondo vagamente hardcore, una “pallida strage” citando il Faust’O di Stracci Alle Fiamme: “Ho sempre adorato l’idea di essere un’opportunità perduta per sempre (…) Quando siamo consci di essere persone sbagliate possiamo aver la pretesa di essere amati? ". “L’Amore” è una di quelle composizioni smaccatamente alla Massimo Volume a cui prima si accennava, che pur mantiene una cifra personale tanto nella sezione ritmica nevrotica e rabbiosa tanto in un’agitazione complessiva marcata, maestosa e tremendamente esatta. La vena alla Mimì Clementi si trattiene ancora nella traccia che segue, “Cagne”, ma ora con un’atmosfera sospesa che muta in breve nell’ennesimo scoppio di vertigini indifese. E’ solo la quarta traccia, ma la sensazione di essere al cospetto di un disco davvero ispirato è netta. Arriva un’altra traccia killer, “Questa Distanza”, che regala una immagine meravigliosa, “un unico livido di niente”, ch’è poi la miglior descrizione d’un brano che prosegue nella tendenza narrativa, nel profilo autoriale e intimo, pur nella comune bufera che ci accomuna. E si sale nella distanza in un nuovo fragore grigio. “La Morte Del Sole”, titletrack che non graffia e che sfila in “Tracce”, con un incipit graffiante e un’andamento straniante, un buco nero che risucchia la narrazione delle tracce precedenti e le fa risorgere in una nuova morte del sole strumentale; da ammirare ancora una volta la maturità delle liriche, essendo ormai abituati a vascobrondismi da terzo mondo culturale. “Carne”, che inzialmente potrebbe esser scambiato per un brano dei Fine Before You Came di Sfortuna riporta definitivamente il disco in zone d’eccellenza musicale, che si compiono definitivamente in “Tecnologici” (passata l’ispirazione stanca di “Carillon”), con la sua apertura abrasiva, sfrenata, ipnotica che ricorda altri fugaci fulmini strumentali alla “Litio” dei Massimo Volume (si, ancora e qui una volta per tutte) per il magistrale controllo di tutta questa incontenibile rabbia piena di senso, anche se è un senso putrefatto e rancido. “In quell’ultimo istante” chiude senza macchie un disco che non ha più bisogno di altro per compiersi, avendo impugnato l’errore che lo segue sottile, parafrasando quest’ultima parentesi testuale.
“Una miriade di palazzi che crollano”, cantano ancora nel finale, e in quest’Italia in rovina di gruppi così dediti alla rappresentazione dell’inarrestabile sfacelo che si compie ce ne vorrebbero molti, peccato che siano già troppi e che in centinaia e centinaia di dischi non raggiungano la lucida e terribile poesia di questo definitivo approdo dei Devocka tra i grandi testimoni in musica del tempo che ci accade.
Voto: ◆◆◆◆◇
Label: I Dischi Del Minollo
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