mercoledì 25 settembre 2013

Jack Day - The First Ten (Recensione)

E’ solo una perdita immensa di tempo stare a formulare mille e più mille frasi per circoscrivere la melanconica bellezza di un disco di un cantautorato semplice, scarno e con la bocca storta propria di quando se è incazzati col mondo intero ma lo si esterna quasi in silenzio, con quei pensieri di fondo che arrivano, sbottano digrignando e poi se ne escono con la timidezza di un piccolo riccio d’innanzi al rotondo buono di una luna piena. Si, è proprio come scrivo il disco d’esordio di Jack Day, giovanotto londinese al quale non importa fare a gara con la moda o essere messo sul piedistallo dei nuovi eroi della poesia solitaria, lui arriva con “The First Ten”, cavalca l’onda della spontaneità e con dieci brani che fanno concorrenza alle friabilità delle nuvole, mette subito a segno un ascolto tenero e assorto in un qualche punto del cielo.
Prodotto dal boss del Bark Studios Brian O’Shaugnessy che già tanto si è prodigato per Primal Scream tra i tanti, il disco porta con sé molte eco vintage di lontani crepuscoli folk e altrettanti angeli che si alternano per ricamarne gli orli come Cat Stevens, Dylan, Springsteen o Bill Fay, tracce che una volta messe a girare, rilasciano come una pozione benigna, tutte le atmosfere looner che una chitarra melanconica possa rilasciare, tecniche di cuore e poco d’artificio pronte a confezionare momenti da incorniciare nella mente; e un silenzio cantato e suonato è sempre portatore di radicalità consistenti, e l’artista Day regala una lezione di estetica che già potrebbe essere una voce autorevole nel nuovo folkly inglese, soprattutto per i suoi rimandi colti e con gli sguardi verso certe simbologie d’antan, comunque e sempre piacevolmente onnivore di bellezza.
Un piccolo “vortice gentile” pregno di emanazioni dolciastre, le ballate stringi cuore “Just a little time” , “I have been conveyed”, il tocco elettrico Cooderiano “Bird song”, il Dylan dei Canyon marroni “Isn’t it strange” e il fichissimo fingerpicking che fa da collante e rugiada in “Shadows in the sun”, tutte cose che travalicano le emozioni e ne procurano altre, un continuo teatro dello stupore che senza far ricorso a marchingegni o strutture musicali statuarie vince e fa vincere chi cerca nella musica delle “povere cose” la ricchezza inestimabile della musica.    

Voto: ◆◆◆◇◇
Label: Buckefull Of Brains 


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