venerdì 8 novembre 2013

Russian Circles - Memorial (Recensione)

Ci sono sempre delle domande, così come “c'è sempre un fottuto spettro” (solita citazione onanistica che nessuno capirà). Quella che mi ronza in testa da qualche anno, e che si è ripresentata con l'annuncio di questo Memorial, è “ma perchè i fans di una band s'incazzano se il loro gruppo di riferimento viene conosciuto attraverso altri media?”. 
Io i Russian Circles, lo ammetto candidamente, non sapevo neanche chi fossero prima di giocare a Dead Space 2, videogame in salsa horror sci-fi in cui la loro "Fathom" fungeva da accompagnamento sonoro perfetto...eppure se fai un'ammissione del genere su youtube trovi millemila persone che si sentono in dovere di dire “c'ero prima io”, schifandoti manco c'avessi la peste e come se fosse un male che la band di Chicago sia riuscita (ne sono convinto) a procacciarsi un bel po' di acquirenti della loro musica in più grazie ad una mossa che è certo migliore che fare una canzone per la pubblicità del Mulino Bianco. Ma vabbè, sul tubo si trova anche chi si lamenta che una canzone degli anni 50 venga conosciuta tramite Fallout: New Vegas ("Johnny Guitar" di Peggy Lee) quindi è meglio lasciare questa marmaglia nel suo brodo e piantarla con questo inutile cappello introduttivo da nerd per parlare, finalmente, di musica.

Se non altro quanto scritto sopra è utile per dire che, al di là della stessa "Fathom", l'album Geneva da cui era tratta è stato per me il punto più alto della carriera discografica dei tre post-rocker di Chicago, pregno di potenza e ogni tanto anche di una vena leggiadra che il seguente Empros del 2011 non riusciva a raggiungere, cercando di spingersi più in là con arrangiamenti maggiormente laboriosi che toglievano però spessore “emotivo” alle composizioni. Memorial in questo senso sembra un po' tornare indietro per andare avanti, se mi si concede l'ambigua frase, visto che gli arrangiamenti sono più semplici e le dinamiche tornano a farla da padrone, e se l'inizio tranquillo e pacato di “Memoriam” sembra suggerire nuovi orizzonti sonori è già la seguente “Deficit” a riportare l'ascoltatore verso ben note atmosfere scure e detonanti. La batteria di Dave Turncrantz è potente come non mai, il ritmo incalzante e le sonorità potenti come me le ricordavo nei migliori momenti, anche quando si lascia spazio alla melodia con un nebuloso arpeggio di chitarra che fa capolino durante i quasi 7 minuti di durata del brano, che sfuma lentamente fino ad attaccarsi perfettamente all'intro della successiva “1777”. Qui le atmosfere si fanno più rarefatte, le chitarre si ergono protagoniste disegnando un paesaggio arioso e quasi epico, energia allo stato puro che sa scatenare anche ondate di potenza quali la cavalcata degli strumenti a metà brano: semplicemente perfetta e sicuramente il brano migliore del lotto. “Cheyenne” arriva a tingere di pennellate nostalgiche il quadro, con arpeggi malinconici a cui il basso cupo e roboante di Brian Cook crea il terreno su cui poggiare in mancanza della batteria, giusto prima che “Burial” torni a scuotere le fondamenta con forza tellurica, sminuita solo in parte dalla mancanza di un finale adeguato al suo cupo incedere, difetto che appare in maniera più evidente in “Lebaron”, mezzo passo falso ampiamente perdonabile all'interno del disco. In mezzo alle tenebre claustrofobiche di questi due brani gli acutissimi incroci di chitarre di “Ethel”, marchio di fabbrica di Mike Sullivan già sfoggiato in vari brani passati (ripescatevi una Malko a caso per farvi un'idea), dimostrano come il cambio continuo di registro non incide minimamente sulla sensazione di continuità ed omogeneità del disco, che sfoggia un'improvviso passaggio ad una tranquilla leggiadria sonora (ma col basso sempre potentissimo in sottofondo) superato in atmosfera solo dalla conclusiva title track, dove viene ripreso ed avvalorato l'incipit iniziale grazie alla voce eterea di Chelsea Wolfe, cantante evidentemente molto amata dal mondo del rock underground statunitense visto che la stessa band ha condiviso (e sta condividendo) con lei la quasi totalità del tour europeo e un certo Mark Lanegan l'ha omaggiata con una cover nel suo recente ultimo disco. Una chiusura un po' fuori dai paesaggi sonori solitamente solcati dal gruppo di Chicago, ma non per questo disprezzabile.

Non si fosse capito dalle parole espresse qui sopra lo dico apertamente: Memorial è probabilmente il miglior disco della band di Chicago, una collezione di 8 brani che, ognuno in maniera diversa, riesce a provocare emozioni contrastanti ma coese fra di loro. Magari non reggerà alla prova del tempo che Geneva ha superato in scioltezza, ma l'impressione che ho ricevuto dagli ascolti finora susseguitisi è che possa farcela anche in maniera migliore: il rimorso per non essermi sbattuto ad andarli a vedere a Bologna intanto mi dilania lentamente, povero me...cercherò di sedarlo giocando a Dead Space 2 (no scherzo, l'ho già finito).

Leggi qui il report del live a Camden Town

Voto: ◆◆◆
Label: Sargent House






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