mercoledì 6 novembre 2013

The Dismemberment Plan - Uncanney Valley (Recensione)

E' sempre molto difficile tornare sulla scena musicale dopo una decade di silenzio. Specialmente quando ti accorgi che non sei più un ragazzino, che sei cresciuto, ti sei sposato, e magari ti ritrovi anche a dover chiedere un prestito per una monovolume e a combattere con pannolini sporchi e maleodoranti. Se poi ci aggiungi la nostalgia dei vecchi tempi e la consapevolezza che questi non torneranno più, allora, amico mio, credo che chiunque sia capace di farsi prendere dallo sconforto. Questo deve essere passato per la testa a Morrison e soci, alias The Dismemberment Plan, protagonisti della scena alternative americana di fine '90s, portatori sani di un indie tutto loro, senza fronzoli, spontaneo, "casual". Ma, come dicevo, i tempi sono cambiati. Questo clichè riecheggia altisonante in "Uncanney Valley".

Basta ascoltare il singolo "Waiting" per rendersi conto di cosa sto parlando. Si fa notare più per il video che per altro, con un Jason Caddell in grande spolvero nelle vesti di uomo "basta-guardarmi-in-faccia-e-risate-assicurate". Ed anche alle tastiere, dai. Qualche intuizione interessante, una risata, un leggero movimento di testa, poi nulla più. Sulla stessa lunghezza d'onda "No One's Saying Nothing", che apre il disco: rumore di campanellini stile slitta di Babbo Natale, arrangiamenti banalotti. Un incipit decisamente poco incoraggiante, specialmente per un fan della vecchia guardia. E' chiara come il sole la volontà da parte del gruppo di sperimentare, in determinate situazioni, un nuovo tipo di approccio, un nuovo tipo di suono, come è evidente una moltitudine assai variegata di contaminazioni, alcune buone e altre cattive, alcune collaudate già in passato e altre del tutto nuove. Pacifico il fatto che i risultati non siano sempre il massimo ("Daddy Was A Real Good Dancer", ad esempio, è orribile). Rimane comunque forte e marcata, rintracciabile in maniera abbastanza omogenea in tutto il disco, l'impronta degli stilemi e delle particolarità più significative che li portò alla ribalta, soprattutto attraverso il loro grande classico "Emergency & I", vero emblema del gruppo. "Lookin" è l'esemplare perfetto, il brano migliore del lotto. Una semplice trama ripetuta in loop con una monotonia (monotòna) disarmante, che rapisce, che crea un vortice caldo e delicato, che ci riporta indietro nel tempo a quella "Spiders In The Snow" che molti aveva fatto innamorare. Il resto è un continuo sali scendi tra buoni e cattivi episodi: la freschezza e il vigore di "Mexico City Christmas" si contrappongono alla volgarità e alla debolezza di "Go And Get It" (tipica canzone che vedi bene nella tracklist di un videogioco di calcio mal riuscito, con quattro cori da stadio messi in croce in pieno stile "ultimi Coldplay", robe che ti fanno venire voglia di uscire in strada e compiere una strage), l'intrigante duo composto da "Invisible" e "White Collar White Trash" (marziale e misteriosa la prima, selvaggia la seconda) fa da contrasto alla meno bella "Living In Song" (scorre via in maniera abbastanza anonima). Nel complesso: classico disco da sufficienza di un gruppo che, dopo l'apice della creatività e del successo, decide di interrompere il lavoro proprio nel momento in cui invece dovrebbe dare continuità, costanza, per poi tornare in scena dopo anni di inattività, di stasi, di polvere. Ora la palla passa al tour nordamericano/inglese, già partito da qualche giorno. Nuovi arrivi, vecchie facce, nostalgia. Chi vivrà, vedrà. Intanto aprite spotify e dateci un ascolto. Alla larga dai live sul tubo.

Voto: ◆◆◆◇◇
Label: Partisan Records


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