lunedì 2 novembre 2015

Low - One and Sixes (Recensione)

Sono trascorsi quasi due anni dalla prima e unica volta che ho incontrato i Low, dopo un’intervista pomeridiana da fibrillazione; perché a volte non SI VA a sentire un concerto, a volte un concerto è un incontro o persino un incidente in cui la vita è messa a repentaglio. Da allora, ogni nota che appartiene ad Alan Sparahwk e Mimi Parker innesca un corto circuito nella mia testa e riporta in vita il lirismo soffocante e il lucido calore dei suoni uditi quella sera di novembre a Firenze, quando l’aria era resa densa dalle melodie incastonate una dentro l’altra e attraversata da sentieri e strade maestre di arpeggi acustici e parche distorsioni. Da allora e ancora oggi, riferendomi a loro preferisco parlare di stile classico e cameristico piuttosto che di slowcore, perché pochi altri hanno compreso e attuato una padronanza delle dinamiche così radicale e pochi possiedono un’attenzione da artigiani che conoscono solo un gesto, eseguito però con maestria millenaria.
La dedizione uditiva domina anche One and Sixes, come è evidente sin dall’incipit Gentle: i bit percussivi e le tastiere ornamentali sanno quando enfatizzare le voci di Mimi e Alan, increspate dal riverbero come una superficie d’acqua. Intermittenti interferenze di chitarra spingono le percussioni secche in No Comprende, mentre la parte vocale si eleva in un coro o intesse dialoghi con il controcanto; nel finale tutte le componenti di questa orchestrazione da funerale rurale convergono e si fondono. In Spanish Translation Alan emette un richiamo da un luogo remoto, per poi unirsi a Mimi nel dirigere l’ensemble delle tastiere e dei riverberi, che sottraggono alle voci la loro corporeità. Congregation introduce a una funzione toccata dal demonio della modernità, che sdoppia triplica e moltiplica gli interventi vocali e disturba con beat sintetici il percorso verso la beatitudine; con incedere infantile, No End travolge con un muro nebuloso di materia vocale gassosa, pervasa da bagliori chitarristici, e Into You ripropone nel cantato la moltitudine artificiale, animata da un battito cardiaco inumano. What Part of Me socchiude la finestra su uno scorcio di serenità pacata, che semplicemente dirotta l’intenzione attenuando il pathos, ma non muta la forma espressiva; il cupo trascinarsi delle percussioni sintetiche di The Innocents sigilla subito la parentesi amena e ripristina la drammaticità, portata in trionfo dall’accoppiata drammatica delle voci e dai pochi interventi della chitarra morbida e lirica. Nonostante l’accelerazione modesta, l’attenzione si conserva omogenea anche in Kids in the Corner, non turbata nemmeno dai curati saliscendi dinamici; il manuale personale di Lies, redatto dai Low sulla scrittura di una melodia riconoscibile, emotivamente compromettente e mai debordante, è smentito da Landslide: la chitarra irrompe suonando a morto, una massa di riverberi cresce quando entra la voce, preparando alla sconsolata mestizia che strangola il pezzo e incrina l’uniforme candore del disco, in un lunghissimo strascico sfilacciato. DJ congeda con un arpeggio elementare e con l’ultima, perentoria affermazione della potenza evocativa delle loro voci, amara e granulosa quella di Alan, traslucida e impalpabile quella di Mimi; mentre il piano scandisce i secondi, la chitarra si affretta verso l’epilogo rarefatto.

One and Sixes vanta melodie più robuste e sfrontate del precedente The Invisible Way, ma sembra soffrire gli interventi sintetici, che talvolta sovraccaricano la scarna limpidezza di cui i Low sono capaci.

Voto: ◆◆◆◇◇

Label: Sub Pop

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