La voce di New York, in particolar modo quando si leva dalle strade di Brooklyn, in ambiti “Rock” assume una connotazione animale, istintiva.
Una timbrica definita dall’assenza di grazia e guidata dalle pulsioni più estreme, radicate in incubi che nascono e si nutrono di vita reale, decisamente lontano dalla fantasia. Un suono claustrofobico, pieno e abrasivo, ormai un marchio, una firma che garantisce alle band nate in quelle strade una sorta di silente riconoscimento scolpito nell’esasperazione della perversione più tangibile.
I The Men si formano nel 2008, nell’area di Brooklyn. Dopo una demo e qualche EP, l’esordio arriva nel 2010 con una self release, “Immaculada”, seguita da “Leave Home”, per la Sacred Bones Records, nel 2011. Il loro sound si costruisce attorno all’incontro tra Sonic Youth e picchi di nevrosi vocale che rimandano, a tratti, alla psicosi di David Yow.
Una timbrica definita dall’assenza di grazia e guidata dalle pulsioni più estreme, radicate in incubi che nascono e si nutrono di vita reale, decisamente lontano dalla fantasia. Un suono claustrofobico, pieno e abrasivo, ormai un marchio, una firma che garantisce alle band nate in quelle strade una sorta di silente riconoscimento scolpito nell’esasperazione della perversione più tangibile.
I The Men si formano nel 2008, nell’area di Brooklyn. Dopo una demo e qualche EP, l’esordio arriva nel 2010 con una self release, “Immaculada”, seguita da “Leave Home”, per la Sacred Bones Records, nel 2011. Il loro sound si costruisce attorno all’incontro tra Sonic Youth e picchi di nevrosi vocale che rimandano, a tratti, alla psicosi di David Yow.
Un connubio contaminato da venature punk rock tipiche dei The Stooges e sostenuto da una sezione ritmica ripetitiva che qualcuno ha forzatamente e frettolosamente ricondotto al post-punk. Definizioni, sostanzialmente futili, servite però ad avvicinare il gruppo alle lusinghe della critica, che definisce i The Men come “una delle band più intelligenti dell’ultimo decennio”. Bisogna riconoscere che i presupposti c’erano ed erano dei migliori.
La pressione delle aspettative, per una band, è un veleno diluito: non uccide, ma ne rivela spietatamente il carattere. Un antidoto necessario a capire se il talento supera le esigenze del mercato e delle etichette discografiche e se è talmente irriverente da ignorare l’obbligo non scritto del “continuum cadenzato” della produzione di “un disco per anno”.
Con Open Your Heart, rilasciato nel Marzo 2012, i The Men, in “media perfetta” da bravi scolaretti, giungono alla terza prova in studio e sono chiamati davanti a un banco di prova fondamentale: devono mostrare al mondo d’esser degni di portare in giro su territori sonori cosi aspri e duri come le strade di New York, un nome così pretenzioso. Il primo solco del disco è "Turn It Around". La traccia spiazza completamente e fin dalle prime note; s’apre con un riff assai poco ispirato, come fossero i primi Foo Fighters alle prese con un brano dei The Stooges. Purtroppo è sufficiente qualche istante perché Iggy Pop ceda definitivamente il passo alla band di Dave Grohl e come se non fosse abbastanza, il brano prosegue, letteralmente, con "Animal"; figura melodica identica, leggermente inasprito nella parte vocale e con l’aggiunta di un coro femminile che vuol conferire, o almeno tenta, una connotazione quasi ironica al titolo. La povertà dei contenuti e la mancanza di originalità prendono il posto di nevrosi e urgenza creativa che trasparivano prepotentemente dai primi due dischi. I brani di Open Your Heart, pare vadano ascoltati a coppie e così arriva il binomio "Country Song / Oscillation". In completa contrapposizione stilistica con le prime due tracce [la sensazione è realmente quella di aver cambiato disco], "Country Song" è un intermezzo che percorre quella triste strada chiusa chiamata “Via dell’Inutilità”. Priva del trasporto e dei contenuti emotivi necessari a un brano strumentale, scorre anonima e potrebbe trovarsi su un qualsiasi titolo degli ultimi Pearl Jam, non esattamente un modello da seguire. "Oscillation" invece vive di due momenti: da brano pressoché perfetto per la soundtrack di un “Bay Watch col senno di poi”, nonostante qualche illuminato abbia gridato al “surf punk”, si trasforma in una sorta di pop rumoroso degno delle peggiori release “indie” della Rough Trade. Il disco prosegue mestamente su questa falsa riga: "Please Don’t Go Away" ricalca in modo preoccupante l’esordio dei Male Bonding, è un fastidioso noisy pop adolescenziale. La title track e la successiva "Candy", acustica, scorrono ovattate quanto anonime e "Cube", invece, arriva per virare nuovamente verso suoni di matrice più rock e interessanti, tuttavia restando nella mediocrità assoluta. "Presence" è esattamente ciò che il titolo suggerisce una “presenza” meramente riempitiva. Ascoltando brani così viene da chiedersi se i The Men avessero un obbligo contrattuale sulla durata minima dell’album. Siamo finalmente all’ultimo solco, "Ex-Dreams" che, più di ambire ad essere la sigla di Buffy in chiave moderna, non può.
Un disco deludente, registrato senza coerenza sonora, che non offende e non colpisce, ma inonda con uno tsunami di educato e pericolosamente eterogeneo piattume, il buon lavoro fin’ora portato avanti dal gruppo. Prova fallita e forse “The boys” sarebbe un nome più appropriato, almeno al momento...
Label: Sacred Bones
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