Se la parola “sinfonico” non
avesse assunto il pestilenziale significato che la storiografia musicale le ha
conferito, sarebbe adeguata a descrivere la magniloquenza con cui esordisce il
nuovo lavoro della Fuzz Orchestra. La solenne overture di Nel nome del padre è tuttavia bilanciata da un immediato assalto
d’impeto: la ben congegnata “macchina apocalittica” di sature chitarre heavy,
batteria implacabile e noise analogico per l’occasione è orchestrata da Enrico
Gabrielli e potenziata dagli Esecutori di Metallo su Carta. Quando Enrico mi
parlò per la prima volta del progetto di trascrivere su partitura brani di
Zeus, Fuzz Orchestra, Zu, Morkobot e di tutti i transfughi vecchi e nuovi della
metallurgia musicale italiana, l’esperimento era all’inizio; dopo due anni
esatti, il brillante Gabrielli aggiunge una scrittura sapiente all’efficace
alchimia del trio e porta con sé una schiera di illustri “esecutori” quali, ad
esempio, Eugenio Bucci, Nicola Manzan, Simon Balestrazzi.
Attingere al materiale audio del
cinema socio-politico italiano anni ’60-’70 significa ricordare un’Italia che
non temeva di esporsi politicamente, in un contesto collettivo che ancora
intendeva la politica in senso classico come riflessione sul bene comune.
L’arrendevole placidità e la democristiana inclinazione al compromesso che
connotano una buona parte di questo popolo – quella forse destinata allo
sterminio apocalittico? – hanno finito per contaminare anche le forme espressive,
generando schiere di musicisti che non sanno cos’è l’eroico furore della
rivendicazione ideologica. Chi non è né caldo né freddo, io lo vomito, appella
Mastroianni in Todo Modo. Tra i pochi
baluardi di intransigenza sonora, Fuzz Orchestra ha sufficiente lucida ferocia
per dosare furibonde sfuriate hard e geometrici tracciati ritmici con distesi
classicismi e squarci di aperture riflessive. Forse frutto dell’incontro con le
partiture di Gabrielli, una più complessa articolazione tra i vari elementi sonori
scompone i livelli d’ascolto, come in Born into this, dilatata tra fiati e violino, o nei funebri
rintocchi percussivi dell’appello all’estinzione selettiva de L’uomo
Nuovo.
L’apocalisse storica, sociale e
personale incombe: Una voce verrà è
testimonianza dell’imminente età di purificazione cosmica, che si avvicina
annunciata non dalle trombe del giudizio ma dal noise dell’apocatastasi
collettiva, perché la fine dei tempi non è trionfo ma azzeramento e ripristino.
Travolge come una cavalcata teutonica il saturo heavy seventies de Il
terrore è figlio del buio: non più solo il
vecchio continente del Settimo Sigillo attraversato dal cataclisma ma il globo
intero, unificato dall’ecumenica violenza sonora di cori stratificati sulla
batteria roboante. Dopo la lamentazione quaresimale filtrata al vetriolo in Lamento
di una vedova, l’opera riporta nelle fucine
infere con il clangore ghiacciato di The Earth will weep che, tra lancinanti ronzii industriali e stridore di
cingoli, si trascina pesantissima verso l’epilogo.
Un concept sul Giudizio e sulla
Redenzione terreni, riportati alle sorti dell’umanità attraverso lo sfacciato
sarcasmo che si appropria delle spoglie mortali di ogni sorta di materiale
sonoro. L’Ecclesiaste heavy del terzo millennio.
Voto: ◆◆◆◆◆
Label: Woodworm
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