mercoledì 29 febbraio 2012

Voina Hen - Voina Hen (Recensione)

Voina Hen (2011), opera prima dell'omonimo quintetto post-grunge di Lanciano. Basterebbe dare un'occhiata all'artwork della copertina del CD - opera di Nicola Maria Salerno - per coglierne il senso: una donna con le gambe costrette in un cerchio e il volto schiacciato verso il basso, la cui vagina si allunga mostruosa nelle sembianze sinistre di un pozzo petrolifero in funzione. Tutto questo è un concentrato potentissimo di tematiche care a Bukowski, abbracciate e attualizzate efficacemente dall'album. La denuncia rabbiosa e rassegnata degli orrori post-fordisti («sensazioni di petrolio/ che vengono via dal tubo catodico/ annusi la follia della tua civiltà/ ma non puoi più fuggire», Sensazioni di petrolio), il rifiuto lucido e il rovesciamento a gambe all'aria dell'amore romantico come balsamo consolatorio («professo la mia totale depravazione assoluta/ io non ho mai amato nessuno/ e mai lo farò/ ho bisogno di distruggere qualcosa di bello/ di infangare la tua pelle», Grid), il nichilismo più gelido che cerca rifugio nel calore liquido e mortifero dell'alcool («ci scontravamo nei bar/ danzando verso l'abisso/ il bere attenuava la nostra sconfitta/ annebbiati dal grande gin/ ci affrontavamo nei vicoli/ ed era storto e crudele il mondo/ crudele quanto noi verso di lui», Charles - di certo non il Baudelaire dell'énivrez-vous creativo, già asservito al pop da Stereolab e, in casa nostra, Baustelle)...

Un concept album dedicato alla dottrina del sedicente «vecchio porco», esasperatamente sessista e politically uncorrect per amor di soldo, dunque? Certo che no; oltretutto la chiusura del lavoro, nel brano "Non avremmo dovuto", è affidata ai versi - recitati da Vittorio Gassman - di "Alla mia nazione" (La religione del mio tempo, 1961) di Pasolini.

Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci
pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti,
tra case coloniali scrostate ormai come chiese.
Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti. [...]
Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo.

Quanto di più lontano dal disfattismo individualista bukowskiano? I Voina sono giovani, questo è il punto; la loro è un'iconoclastia infuocata, carnale, che contraddice lo stesso slancio di autodistruzione veicolato dai testi. I loro non sono i ricordi rielaborati a distanza da un vecchio misantropo col dono della penna. I Voina Hen sono pulsione sessuale in atto. La scarnezza virile del suono, che attraversa massiccia una per una le nove canzoni, è un vestito che ben si adatta all'essenzialità diretta delle liriche. Il loro primo album, per quanto fin troppo omogeneo negli arrangiamenti, è una prova più che dignitosa di onestà intellettuale e riflessione creativa.

Voto: ◆◆◆◇◇
Autoproduzione

lunedì 27 febbraio 2012

Modì – Il suicidio della formica (Recensione)

Modì – Il suicidio della formicaUna nuova e bella scheggia volante questa dè “Il suicidio della formica”, esordio del cantautore calabrese – ma oramai cittadino della capitale – Giuseppe Chimenti in arte Modì, un’altra “fiaba” di penna che arriva per spiegare ulteriormente quello che il cantautorato d’ultima genìa può dare all’arte delle parole musicate, a quel teatro dell’espressione che si prende le sue responsabilità circa la formazione di un nuovo modo di ascoltare e di penetrare il racconto proprio, di chi specialmente disegna una parallela perfetta tra chi tende l’orecchio e chi lo fa volare in ogni dimensione.

Otto tracce più la rivisitazione in italiano di “Ballad of big nothing” di Elliot Smith, una spina dorsale sonora che immagina, cresce e appassiona come attraverso vetri o prismi che si rifanno in luce chiaroscura, rivivendo intatta l’atmosfera che l’artista dirige in una rotta per chissà dove, dentro e fuori l’alto ed il basso di storie amare, agrodolci e leggermente velate da malinconia; un disco che fa piacere assoluto se ascoltato ripiegati su un divano e con la luce soffusa, piano piano fino a diventare del suo colore autunnale, raggomitolati tra le sue cornici espressive e cullati dalla parola di Modì, che emana sicurezza e torpore, un libro aperto ma intimo da sfogliare con calma e a cuore divaricato.

Un paesaggio di belle canzoni, una dolcissima e accorata intensità di languori, tormenti e labbra strette che si animano di poesia come il goniometro alla stregua del compasso che rivivono spesso nei pezzi di Moltheni Preferisco il silenzio”, oppure la consapevolezza del vuoto che ci circonda colorato da armonica e fumi jazzly “Persistenza della memoria”, le domande senza risposte “Gli anni chiusi in tasca”, lo ieri appannato “Carnevale”, gli accordi aperti di un volo “L’amore ci brucerà” e l’amarezza profonda che nella titletrack si fa pozzanghera con i cerchi fatti da un tiro di sassi mai tirati; la forza di questo nuovo cantautore è quella della semplicità e della convinzione che i poeti sono proprio quelle strane creature che un De Gregori d’antan declamava, ma non perché ogni volta che parlano è una truffa, ma perché ogni volta che tornano sui luoghi dei loro “delitti”, ci uccidono con l’unica arma che piace che ci uccidano, con l’amore dei loro inchiostri virtuali.

Voto: ◆◆◆
Label: Hydra Music


domenica 26 febbraio 2012

Ólafur Arnalds - Another Happy Day (Recensione)

Ólafur Arnalds - Another Happy DayUn altro giorno felice per soffrire nel modo più dolce e doloroso possibile. La silenziosa lentezza con cui prendono vita queste piccole lame ghiacciate, fluttuanti verso il tuo viso, sfiorandoti, ustionandoti ancora una volta, scoprire di godere ad ogni tocco, non riuscire più a farne a meno, un altro giorno felice seduti a terra, in silenzio, ascoltando ad occhi chiusi, c'è Ólafur Arnalds!

Forse è una delle poche volte in cui un film viene concepito ispirandosi alla musica e non viceversa. “Another Happy Day” regia di Sam Levinson, con Demi Moore ed Ellen Barkin, un film ispirato, come confessa il regista, dalle sinfonie malinconiche del genio islandese Ólafur Arnalds. Quest'ultimo ci racconta la simpatica trama che ha portato alla realizzazione di questa grande colonna sonora: metà dicembre, una vacanza in Cina, una mail di Levinson all'artista ed una notte trascorsa al telefono. È grazie alla fantastica Ellen Barkin ed alla sua morbosa ossessione verso le composizioni del principe d'Islanda, che i produttori cedettero alla scelta di quest'ultimo facendo infuriare mamma Arnalds. Ólafur dovette comporre l'intera colonna sonora in sole due settimane; ergo natale rimandato.

Un ritorno alla classica di prim ordine, quasi nessuna intrusione elettronica, giusto una spolveratina in “The Land Of Nod” , forse. Si notano influenza sia dal precedente album sia dal collega di casa e tour Nils Frahm, approcciandosi in maniera molto più intima al suono, ricordando a tratti come logico che sia lavorando spesso fianco a fianco. Un ambient da brividi in “Before The Calm” disorientando l'ascoltatore, scomponendolo in piccoli frammenti per poi ricomporlo con la perfezione di un modellista in “Lynn's Theme”. Davvero piacevole. Naturalmente trattandosi di una colonna sonora l'album è in continuo conflitto, rendendolo imprevedibilmente sorprendente per i timpani meglio aguzzati. “The Wait” stende furtivamente degli equilibri di seta e petali, introducendo nella medesima scena “A Family stroll” e gran parte di “Poland” con degli arpeggi che sembrano uscire spontaneamente dallo stesso pianoforte. Quasi un'unica traccia fino agli inizi di “Out To Sea” bisogna pazientare un po', gli archi mutano in lupi che aspettano il momento giusto per azzannarci, (3:37) le urla, poi naturalmente il silenzio. Resuscitiamo ancora una volta “Autumn Day” per chi avesse dubbi fino alla fine, qui la firma è nitida Ólafur Arnalds. La traccia più lunga e forse anche la più cattiva di questa favola dell'orrore “Everything Must Change” una risposta a come impazzire di gioia mentre ti fanno a pezzi. Non sale più nessuno, neanche una nota, siamo pieni! La fine di una volpe che fugge con il nostro corpo tra le zanne, e la testa ancora sotto ipnosi per questo disco.

Un album naturalmente diverso, non aspettatevi esplosioni eclatanti, ma minuziose scintille. Ricordiamoci sempre che si tratta di un disco nato e cresciuto in due settimane, una nuova esperienza, un livello di pressione che avrebbe scalfito un gran numero di artisti, ma a quanto pare non il figliol prodigo d'Islanda. Ólafur Arnalds non è un pianista, non ha una tecnica magistrale, non è un maestro. Lui è il piano.

Voto:
◆◆◆
Label: Erased Tapes Record




sabato 25 febbraio 2012

The Chap – We are nobody (Recensione)

The Chap – We are nobodyDa Londra l’ondata elettro-punk che in molti aspettavano, e tutto per mano e ritmo di una delle band più corteggiate dell’indie rock britannico, The Chap, un quartetto che del live-move ne fa una missione focosa e su disco prepara moltitudini di fan a scatenarsi con i suoni del nuovo millennio, uno straordinario mix di Beck che gioca a rimando con i Rapture che a loro volta riconiano un’atmosfera alla Architecture in Helsinki; “We are nobody” è già una summa di hit litigate e contese da radio e postazioni FM, un mirabolante carattere sonoro che ingoia di tutto, dalla rock-dance all’elettro-freak di tendenza, tanto che in molti del settore li hanno definiti eredi di sangue dell’estro di David Byrne – infatti il vocalist Panos Ghikar lo ricorda in modo impressionante – e i suoi Talking Heads, ma a parte l’azzardo, c’è molto da investire in questo quartetto d’Albione, molto da ricambiare per i loro sussulti e per le loro materie sonore da sballo.

Ci potrebbero essere – tra le trame della tracklist – anche sulfurazioni di Block Party, ma quello che più emerge prepotentemente e la spina dorsale di un suono che non fa stare fermi nessuno, uno di quei sound che si insinuano tra la pelle e la voglia di dance che ti fa schiavo in un nonnulla, musica predisposta a notti e ore piccolissime in clubs o dance-hall senza limiti fisici, tormentoni amicali che si fanno sopportare come una felice intuizione; tutti a smuovere le chiappe con l’epilettismo elettro di “What did we do?”, forte a darci dentro il funkyes softato di “Talk back”, ottima la rimpatriata con un Beck assorto “We are nobody” come il latin robotizzato che fa mossette in “Painkiller”, momenti di linee di basso ben definite, la vocina di Claire Hope che si fa eco e motivetto rock’n’roll da juke-box alieno “Hands free” per regalarci una perla di vertigine elettrica da pogare allo stremo.

L’ombra degli anni Ottanta fa da sole a tutto il registrato, i Klaxons che si nascondono tra le pieghe insieme ai Chk Chk Chk (!!!)This is a sick” et voilà, un disco buono per tutte le stagioni, fresco e scattante per una miriade di giornate da passare in pace con la complicità di un paio di buone cuffie o – addirittura – se si ha la fortuna di intercettarli dal vivo – per lasciarsi “pestare” in uno show dimagrante garantito oltre la garanzia. Con i The Chap muovi le chiap !!!

Voto: ◆◆◆
Label: Lo Recordings 2012


giovedì 23 febbraio 2012

Kayo Dot - Gamma Knife (Recensione)

Kayo Dot - Gamma KnifeRecensire i Kayo Dot, non è sicuramente cosa semplice perchè rappresentano quel genere di gruppo che necessariamente divide oltremodo l'audience; non è per la loro capacità (o non capacità) compositiva, ma piuttosto perchè nelle loro realizzazioni sembrerebbe emergere una certa dose di spocchia che va ad inserirsi in un contesto piuttosto complesso per l'ascoltatore. Ma questa sarebbe un'analisi piuttosto superficiale della proposta offerta da Toby Driver e soci, una proposta che sembra partorita dalla malata mente avanguardistica del John Zorn più allucinato e in vena di unire qualcosa che teoricamente dovrebbe restare separato! I Kayo Dot cercano di fondere progressioni jazz-rock di matrice decisamente free al “calcolo” infinitesimale dell'avantgarde-prog.

Quello che giunge alle nostre orecchie ad un primo ascolto sembra qualcosa di indefinito, di caotico, quasi lanciato a caso all'interno del flusso musicale che guida queste composizioni, ma appena trovata la chiave di lettura del disco, ci si ritrova dinnanzi a qualcosa di estremamente bello, di estremamente potente e in grado di fare in modo che i confini vengano travalicati con immensa facilità.

Il disco si dipana in cinque composizioni, una più spettacolare dell'altra, e se state cercando qualcosa che esca fuori dalla solita routine di cassa a martello, rullante pestato a velocità supersoniche e riff scontati, di cui già conoscete a memoria la trama, questo lavoro fa decisamente al caso vostro. Le atmosfere si mescolano e si sovrappongono a produrre corpo e sanno offrire a chi ascolta con attenzione una visione decisamente più ampia della musica. Il panorama pian piano si allarga, e non sull'orizzonte ma dinnanzi ai vostri occhi, per lasciarvi ammirare passaggi melodici ed armonici che sapranno sicuramente trovare il vostro punto di rottura tra la normalità e quel quid che troppo spesso manca in un disco. Con questo non voglio dire che il disco sia esente da difetti, infatti la produzione a volte un po' eccessivamente confusa non ne lascia apprezzare al meglio i passaggi e non offre quella sorta di respiro di cui gli strumenti dovrebbero godere; e trattandosi di esecuzioni piuttosto complesse e intricate, in alcuni momenti si creano delle sovrapposizioni che stoppano un bel po' la capacità di scorrere, pur nella sua complessità, di Gamma Knife.

Ascoltando il disco, noterete subito come questi cinque brani non siano solo frutto del lavoro in studio, ma vi siano composizioni riprese in sede live; questo a significare che i Kayo Dot, riescono perfettamente a riproporre il loro intricato sound perfettamente anche in condizioni non sempre agevolissime.

Per semplificarvi il lavoro, potrei usare dei termini di paragone: immaginate un po' l'ultimo Ihsahn (Emperor) che incontra, in una free jam, i nostrani Ephel Duat e John Zorn ed avrete un'idea, anche se vaga, di quello che questi ragazzi riescono a tirar fuori dai loro strumenti.

Ve li consiglio vivamente, dategli un serio ascolto ed una volta riusciti a penetrare all'interno delle atmosfere vorticose del disco, potrete davvero godere di qualcosa di diverso, qualcosa che vi lascerà poi soddisfatti della vostra fatica. Qui non siamo in presenza di qualcosa di orecchiabile, di qualcosa da primo ascolto o da “ una botta e via”; nelle loro composizioni troverete spunti da qualsiasi genere, con forti rimandi anche alla musica classica e dodecafonica, per cui è necessario approcciarsi in un certo modo all'ascolto di questo platter. Io stesso ho dovuto riascoltarlo più e più volte prima di mettermi davanti al pc per scrivere la recensione che state leggendo, poiché non riuscivo minimamente ad entrare dentro le composizioni, non riuscivo a comprendere il fluire delle note e dove volessero andare a parare, finchè ad un certo punto mi sono lasciato guidare dallo scorrere delle strutture e dalla capacità di coinvolgere dei suoni e mi si è aperto uno nuovo spazio di commistione tra quello che c'è e quello che in realtà è possibile. Ecco quest'album rappresenta una possibilità!

Voto: ◆◆◆◆
Label: Ice Level Music


J27 – Generazione Mutante (Recensione)

J27 – Generazione MutanteChi ha detto che il rock “valvolare dentro” – quello venoso che circola tra i faldoni amplificati del sottobosco underground – è quasi in fin di vita? Basta invertire i jack d’ascolto e sintonizzarsi in questo “Generazione mutante” dei toscani J27 e tutte quelle radici bollenti di certi dischi sacri dei Negrita di primo pelo “Il viandante”, “L’alieno”, “Non esisti” e dei Grand Funk Railroad d’anni fa “Mai”, “Bombe si rifanno prepotenti, rabbiosi e saturi di blues rock, hard rock e liscive speed che troncano il fiato.

Disco da vene del collo gonfie e spasimi di rifferama - c’è molto del Blackmore Purpleiano - che sembra un modernariato emotivo, protettivo di ricordi e tramandi per più di una generazione, un “force sound” che esprime appieno il suo animo vintage esplosivo e che non ingombra per nulla le atmosfere che in questo caso vorrebbero bollarlo come un’operazione sclerotica, ma del resto la stupenda “tossicodipendenza” che musica di tal fatta ancora unta orecchi e cuori scalmanati è tanta come la consapevolezza di essere centrifugati dai suoi ingranaggi sonici, allora tanto vale perderci i connotati per una mezzora e qualcosa.

Ovviamente nulla di altro se non ottimo rock sudaticcio, suonato da questa formazione con tutti i crismi e le benedizioni possibili che si coagulano insieme pur di sfasciare woofer, idoli e le maledizioni che il moniker si porta appresso come un gatto nero che attraverso il destino; nove tracce inedite e la coverizzazione di “Shout” (Tears For Fears) che fanno fibrillare i coni come in un rapporto incestuoso con una magnitudo in corso, ma anche spazio per una ballata Afterhoursiana “Solo”, un’eiaculazione svisata di corde elettriche come Zeus comanda “Venere nera” e il Mark Farner che da fuoco alle polveri di “Generazione Mutante”, luogo, simbolo e devozione di un disco alla vecchia maniera, sporco e con le palle giuste per far vibrare quella feroce energia che trasmette sottopelle.

Dieci tracce che insieme sono tasselli di un’opera praticamente perfetta per tornare indietro nel tempo, nell’Eldorado del vero rock, a distanza dai vuoti sospesi ed emaciati dell’indie a tutti i costi.

Voto: ◆◆◆
Label: Vrec

mercoledì 22 febbraio 2012

Il Cielo di Bagdad - Unhappy the Land where heroes are needed or LaLaLa, ok (Recensione)

Il Cielo di BagdadA qualche anno di distanza da "Export for Malinconique" ll Cielo di Bagdad ritorna con "Unhappy the Land where heroes are needed or LaLaLaLa,ok" e dipinge un paesaggio surreale e sfumato. La band abbandona dunque il post- rock nostalgico per proiettarci in una landa sonora che ci risveglia in positivo e che sembra incitare al rinnovamento.
"Infelice la terra che necessita di eroi", recita il titolo dell'album. E felice invece il paese ritratto in questo album.
Il Cielo di Bagdad disegnano un' Arcadia meravigliosa fra violini, scampanellii e chitarre acustiche, un posto in cui tutti vorremmo essere, un'isola di pace e gioia sonora.

"Unhappy the Land where heroes are needed or LaLaLaLa, ok" è una risposta al caos e al cinismo, una dolcissima raccolta di inni alla gioia e marcette profonde che incitano alla spinta interiore, ad un'allegra reattività dell'anima verso qualcosa di sognato, sperato e positivo.
Le 8 tracce che caratterizzano l'album sono morbidi acquerelli in musica o schizzi a carboncino più decisi, strumentalmente infatti la band si avvale di una tavolozza infinita di suoni stemperati sapientemente in modo tale da creare ambienti liquidi o netti fra violini, ritmiche marziali e cori. Caratteristica principale dell'album è una profondità sonora creata attraverso intrecci di chitarra, cimbali, e melodie che richiamano talvolta elementi tipici di differenti varietà di musica etnica.
Piedi che marciano e mani che applaudono a tempo introducono il concept già dalla prima traccia "LaLaLaLa, ok" proseguendo con un fiero crescendo il cui picco si raggiunge in "Happy Heroes", manifesto musicale di vittoria, un sorriso orgoglioso e impettito, una bandiera alzata al cielo. Notevole anche"Stop! Stop! Stop!" con il suo giro di piano sostenuto a rappresentare una sorta di grido di battaglia fanciullesco.
Immediato è il collegamento con le atmosfere sognanti ed evanescenti dei Sigur Ros ma i nostri si distinguono dalla band islandese proprio grazie ad un tappeto ritmico più scandito ed incalzante.
Il messaggio veicolato dalla band è volutamente istintivo. Ci si avvale dell'onomatopea, di urla di incoraggiamento e sillabe isolate. I Cielo di Bagdad arrivano dritti al punto comunicando su un piano emotivo piuttosto che tramite un testo cantato in maniera convenzionale. Le melodie vocali sono infatti evocative, atipiche e gradevoli. L'immaginazione regna sovrana. Il punto focale è dunque tratteggiato con lo scopo di concentrarsi attorno ad un mondo nuovo di cui siamo tutti piccoli eroi.
"Unhappy the Land where heroes are needed or LaLaLaLa, ok" è un trionfo di echi, una spinta musicale alla forza della fantasia che celebra con fierezza la gloria semplice delle nostre stesse epiche gesta. Una collezione di inni il cui messaggio principale è quello di farci sentire grandiosi, fieri e vittoriosi dipingendo spazi immensi tra le pieghe più strette della quotidianità e del conformismo. A fine ascolto si ha dunque la felice sensazione di esser stati trascinati al seguito di un Peter Pan interiore, come coraggiosi bambini sperduti su di una sonora Isola che non c'è.

Voto: ◆◆◆◆
Autoproduzione


Lincoln Durham – The Shovel vs The Howling Bones (Recensione)

Lincoln Durham – The Shovel vs The Howling BonesUn pò Jack White maledetto ed un pò ossesso nipote di un qualche diavolo che potrebbe rispondere al nome di Mississippi Fred McDowell; è il giovane texano Lincoln Durham che attaccato alla sua Gibson del 1929 da fuoco al suo primo album “The Shove vs The Bowling Bones”, il condensato di un talento fuori delle righe, acido come un cantos da woodoo e sublime alla pari di un rapporto sessuale al culmine della goduria, undici tracce roots sporche maledette e subito di blues laido del Delta, strisciato, sbavato e contaminato in qualche parte minore da un country CreedenceanoLove letter”, ma sono pagliuzze d’oro dentro un fiume in piena e che grazie alla sua vecchia chitarra suonano di un meraviglioso vintage che fa accapponare la pelle.

Durham canta della disillusione, della solitudine e della depressione sociale che amareggia molti dei pensieri di un America minore, nazione di svantaggiati ed esclusi che roteano fuori o ai bordi di un sistema falsato, ed è un’amarezza che l’artista sfoga anche attraverso una stupenda voce rotta e sabbiosa, voce nera ed inquietante che porta l’ascolto di questa sua “prima volta” a livelli stratosferici fintanto che non ti senti fradico e puzzolente di limo e paludi di Mississippi fino a lasciarti portare via tra i suoi gorghi divinatori.

Emozioni tribali “Muddle puddles”, l’inquietudine stompin’ blues che trema in “Drifting blues”, Robert Johnson che benedice il mid tempo di “Reckoning lament” , il bellissimo caracollare leggero a cavallo di una poesia country-folk acustica “Clementine”, il gospel rurale e magico “People of the land” o l’anima selvaggia che canta ad una luna piena “Georgia Lee”, fanno di questo disco un’ opera di spessore, non una ricalcata di stilemi logori, ma una precisa rivalutazione del ghigno del Diavolo del Blues, preso da angolazioni e spifferi che lasceranno a bocca aperta vecchi e nuovi aficionados del genere; con Durham a condividere questa sana malattia Derek O’Brian e Ray Wylie Hubbard alle chitarre, Rick Richards batteria, Bukka Allen piano ed accordion e Jeff Plankenhorm al banjo e mandolino e di nascosto, nell’ombra d’amplificatori roventi, il respiro d’alcol del Texas, slide lussuriose e Satanasso Devil , che in questa occasione non si è solo prodigato a fare pentole, ma il furbastro ha fatto anche i coperchi.

Voto: ◆◆◆◆
Label: Lincoln Durham


martedì 21 febbraio 2012

Maria Antonietta - Maria Antonietta (Recensione)

Maria Antonietta AlbumMaria Antonietta, non esistono vie di mezzo per questa giovanissima artista di Pesaro, non esistono i “sì, però”, la questione è molto semplice o la si ama o la si odia. O la ami follemente oppure dopo le prime note spegni lo stereo, il computer e tutto ciò che potrebbe trasmetterla.
I motivi per amarla sono diversi: ha una personalità spiccata, che le ha permesso di abbandonare i primi progetti per dedicarsi interamente alla sua carriera solista e questa volta in italiano. Ha coraggio da vendere, si presenta come una paladina spirituale, ama Gesù e tutti i Santi. Ha una voce sfrontata, ruvida, molto rock ‘n roll.
I motivi per odiarla penso che siano gli stessi, a voi decidere!

L’abbiamo lasciata come Marie Antoinette con il suo lavoro d’esordio “I Want to suck your young blood” totalmente in inglese, ed è stato subito una caccia alla citazione, c’era chi diceva che fosse la Patti Smith italiana, Pj Harvey, che avesse in sé lo spirito delle Hole tutte insieme, ora che canta in italiano e si presenta semplicemente come Maria Antonietta, la situazione non è diversa, c’è chi parla di Carmen Consoli e così via.

Bene! Io non ho proprio voglia di stare a questo gioco. Dico solo che questo è un album di grandi contrasti, è tutto tinto da sfumature retrò o decadenti ( termine che le si addice moltissimo) ma dietro questo “rosa-antico” c’è un forte spirito punk. Si è presentata con un singolo di forte impatto come “Quanto eri bello” che di primo acchito sembra una canzone d’amore, tutt’altro, è una sorta di rivincita delle donne ed è quanto mai realistico, le ragazze ora non cercano più il principe azzurro,”quanto eri bello, io volevo solo portarti a letto” ma è anche vero che si è estremamente fragili “e volevo essere felice ad ogni costo”. Un album dove la dimensione personale è raccontata senza filtri e senza vergogna, è la storia di una vita, di una crescita. Brani come “Saliva” o “Estate 93” e “Questa è la mia festa” raccontano un po’ il disagio di un’anima così come potrebbe essere applicabile al disagio delle ultime generazioni, “E poi tutte le mie canzoni parlano di un solo cazzo di argomento, della mia incapacità di accettare la realtà”. La passione per la agiografia è anche in questo lavoro molto presente nei brani come “Maria Maddalena” e “Santa Caterina” , è una componente importante e molto caratterizzante per Letizia Cesarini, componente che trovo originale al di là dei pareri personali.

In conclusione, è un album che può trovare il suo seguito, e che ha sicuramente qualcosa da dire, è forse un po’ troppo ostico e ripetitivo e che a lungo andare può annoiare. Sicuramente ha portato Maria Antonietta ad essere una personalità nella scena musicale italiana anche grazie ad una buona produzione di Dario Brunori. Staremo a vedere.

Voto:
◆◆◆◇◇
Label: Picicca Dischi

Joseph Arthur – Redemption City (Recensione)

Joseph Arthur – Redemption CitySi, effettivamente se non fosse per la bulimia di canzoni a rappresentare l’estro anche troppo libertario del cantautore americano Joseph Arthur, quest’enciclopedica collezione di tracce chiamata “Redemption City” – senza spocchia agè – potrebbe essere anche un buon disco, a parte l’apatia generale dell’artista per le ristrettezze creative e di metrica, ma un doppio album ad un tre mesi circa dal precedente The Graduation Ceremony, suona come una svendita di musica della quale non si sa cosa farne.

Lui non ama regole o diktat, anima libera e salva da condizionamenti e leggi, della sua musica ne fa ciò che vuole, e su questo - ci mancherebbe – non ci piove, ma nemmeno un sole è da condividere; mettiamola pure sull’incalzante energia in più che Arthur deve in qualche modo dissipare, magari soprassediamo sul free-form poetico che deve raggiungere un punto alto di pathos, ma, sebbene si possa scaricare in download gratuito, questo album a breve andare soffoca e si contorce dentro se stesso, non per la qualità ma per troppa saccenza lirica e troppe sonorizzazioni messe sul fuoco.

Ventiquattro tracce che non ti fanno arrivare al capolinea d’ascolto, un flusso continuo di coscienza e frammentazioni che fanno riflettere e gettare colpi d’occhio su un uso d’elettronica e pop che vanno di pari passo, ma senza mai mostrare alternativa ad una deriva soffusa ma deriva su qualcosa di sminuitivo, superficiale e – col senno di poi – noioso ad oltranza; la penna di Arthur n’esce abbastanza ammaccata, lo spoken word tra ritornelli e beat ossessivi non rendono giustizia all’atmosfera coordinata che si cerca col lumicino dentro questo impazzito e grasso poetame a tutti i costi, e se questa per Arthur è la città della redenzione, figuriamoci i vicoli cosa potrebbero essere.

Pulsazioni elettroniche e wave elettriche “Mother of exile”, il retrofuturismo evocato in “Touched”, la canzone kilometrica che striscia “Surrender to the storm”, il robotismo filo-kraut “Sleepes”, l’umano che si riprende i fili propri dalla disumanizzazione tecnologica “Humanity fade”, le parole soffuse “Fractures” e l’andazzo metropolitano e chiassoso di un Lou Reed che ancheggia in “I miss the zoo”, da sole possono già essere una buona rappresentanza di quello che si rivolta dentro questo disco che, ripetiamo, più che un disco sembra un esercizio di stile e null’altro; le redenzioni possono accadere come le devianze, fa parte dell’eterno gioco della personalità umana, ma questa di Arthur non è una mossa azzeccata, più che altro un poetico scaffale d’offerte speciali o saldi last minute.

Peccato davvero per questo giro Joseph!

Voto: ◆◆◆◇◇
Label: Lonely Astronaut


domenica 19 febbraio 2012

Slumberwood - Anguane (Recensione)

Slumberwood - AnguaneFormati da due membri precedentemente visti al lavoro tra le fila dei Mamuthones, i padovani Slumberwood giungono, dopo essersi fatti apprezzare nel 2009 con l'ottimo "Yawling Night Songs", al secondo capitolo con Anguane. Inutile star troppo a tergiversare sull' alta intensità lisergica dell'opera viste le personalità coinvolte nel progetto, alfieri di tutto rispetto della neo-psichedelia made in pizzaland (produzione e co-arrangiamenti a cura di Marco Fasolo dei Jennifer Gentle con cori di Federico dei Father Murphy).
Anguane non è solo un termine veneto ad indicare figure al centro di leggende locali metà donne e metà serpente, protagoniste conturbanti di incubi ed allucinazioni notturne, bensì un teatrino sonoro inscenato da tristi ed oscuri attori creepy in angusti spazi corrosi a metà strada tra delirio ad occhi aperti e febbricitante oppressione della quale al mattino non si vuol più avere memoria. Poco spazio alla forma canzone e molta enfasi donata alla ricerca strumentale d'atmosfera, accentuata da quell'esasperazione acidula tra intermezzi oblianti e coralità trasformiste. Il lungo incipit di "7th Moon of Mars" è la giusta premessa al viaggio che ci spetta nel lato più oscuro della nostra mente, in un universo a noi parallelo e sconosciuto nel quale le uniche guide, nonchè deterrenti alla pazzia, sembrano essere i nostri sensi. "Emerson Laura Palmer" è una citazione quasi doverosa in un lavoro enigmatico ed incredibilmente variopinto quanto un'opera di Lynch, e si presenta come parentesi memorabile nel suo passaggio da marcetta cantilenante a puro sfogo acido per poi liquefarsi nuovamente assieme al cantato in un oltremondo oscuro. Si passa in scioltezza dall' irresistibile leggerezza psycho-folk di "Everything is Smiling" alla spettacolare "Help Me Grampa", via di mezzo tra mantrico ecosistema post-rock e pop inacidito su conclusione elettronica, per poi lasciarsi intrattenere dal reiterante arpeggio in salsa glitch-ambient di "La Corsa del Lupo". Arrivano i rimproveri con la greve e marziale "Sargasso Sea" e ci si perde tra il criptico minimalismo di una "Mr Sandman" (cover delle Chordettes) divorata dalle fauci del sestetto ed espulsa grottescamente in una sorta di freak show senza mezzi termini. L'organo penetrante di "Harmonium" ci accompagna all'uscio di questo incredibile sabba pischedelico, con le sue liquide e goticheggianti rarefazioni.
E' alla fine, con la title track, che apriamo gli occhi su di una realtà che sembrava perduta e ora ritrovata nel mondo circostante, a sentir spegnersi l'ultima nota di piano lasciandoti solo a dialogare con il silenzio.

Anguane è un disco ben articolato, ricco di contenuti, fatto di dissonanze, di paesaggi atmosferici eccezionali ed intrecci di generi (ambient, folk, pop e avanguardia) reindirizzati a noi come attraverso una sorta di lente deformante. Una miscela che unisce e separa, fonde e disgrega nella meticolosa cura degli arrangiamenti un suono che sembra avvolgerti per intero e trascinarti nei suoi mutevoli labirinti. Assolutamente da provare.

Voto: ◆◆◆◆
Label: Tannen


Peter Broderick - http://www.itstartshear.com/ (Recensione)

Peter Broderick - http://www.itstartshear.com/ Peter Broderick è un cittadino del mondo, un viaggiatore instancabile, mosso da una forte curiosità e dalla voglia di sentirsi pienamente in vita. La sua dirompente carriera, come un fiume in piena corre veloce contro ogni ostacolo, la sua musica non fa altro che crescere, esonda, abbatte gli argini per confluire dentro quest'url: "http://www.itstartshear.com/".
Un titolo più geniale di questo non poteva che uscire da una mente così brillante, ossessionata dal suono, alla perenne ricerca del particolare, dunque - www . inizia a sentire . com - un modo ironico e nuovo per ribadire alcuni concetti legati alla fruizione e l'ascolto distratto di musica degli anni zero, quelli del World Wide Web.
Per questo mi sembra ancor più fantastico recensire un album che è stato concepito per essere condiviso con tutti, spero che il mio feedback positivo possa invogliarvi all'ascolto di quest'album, che rappresenta tutto quello che un'artista riesce ad immortalare degli attimi fuggenti, gli scatti fotografici, i video, le lettere e farli confluire in musica.
In tutti i brani si alternano Nils Frahm (di cui vi abbiamo già parlato in "The Bells" e "Felt"), ma anche Friedrich Störmer, Mads Brauer (Efterklang), sua sorella Heather Woods Broderick (Horse Feathers) ed altri. È incredibile come un testo minimale, come quello che si ripete nel primo brano "Io sono pianoforte" possa suscitare più sensazioni di molte altre frasi più elaborate. Troviamo un Peter Broderick più ispirato del solito guardando agli innumerevoli album precedenti, in particolar modo dai più caratteristici e conosciuti "Home" e "Float", "Music for Falling From Trees", dunque lo vediamo meno curvo sugli strumenti, più tonico nello sviluppo concettuale, come in "It Starts Hear", da lui stesso spiegato sul sito, scrive di aver spinto Nils a sviluppare un singolo che sarebbe potuto passare in radio, ecco quindi comparire un cantato simil hip-hop, troviamo un avvicinamento agli Efterklang di cui lui è turnista dal vivo, in particolar modo in "Colin" e "With the Notes on Fire". Poi c'è la stupenda "Bad Words" un brano lento, ben cadenzato da piano e chitarra e cantato in tedesco, composto tutto da parolacce.
Vi consiglio di non farvi prendere dalla pigrizia, andate sul sito e leggetevi le storie che accompagnano ogni canzone, immergetevi nel mondo di Broderick, cercate di capire cosa c'è dietro il brano Blue, come si è sviluppata in un wc di New York "Everything I Know", a chi sono dedicate "Asleep" e "Trespassing". Non ho nient'altro da aggiungere se non che un link: http://www.itstartshear.com/

Voto: ◆◆◆◆
Label: Bella Union

sabato 18 febbraio 2012

Dr. Dog - Be The Void (Recensione)

Dr. Dog - Be The VoidIndosso i miei vestiti come una guardia del corpo, metto i cani in guardia nel mio giardinetto sul retro. Non voglio combattere, ma sono costantemente pronto e non faccio mai oscillare la barca, ma tanto è sempre instabile.
A voler essere sintetici, questi quattro versi racchiudono il senso dell'album. Scusate la pseudo parafrasi in italiano di queste quattro frasi ma era dovuta.
La traccia padrona dei versi sopra citati è “That Old Black Hole”, ed è la seconda dell'album “Be The Void”, ultima di sei fatiche della band made in Pennsylvania composta dalle cinque T (Taxi, Tables, Text, Teach, Thanks), altresì nota come Dr. Dog. Si è poi aggiunto il nuovo batterista Eric Slick (ossia Teach) e il percussionista elettronico/chitarrista Dimitri Manos, in cerca di soprannome.
Il genere, per sbrigare subito la faccenda della catalogazione musicale, è un Rock – Indie – Folk - Baroque Pop. Insomma una bella passeggiata di dodici brani. Passiamo alla polpa.
Ad incalzare le danze c'è subito “Lonesome”, per passare poi alla prima citata “That Old Black Hole”, quindi vi ritrovate nella vostra testa che girate in punta di piedi attorno ad un elefante. Sì, ho di nuovo tradotto un loro verso, tipo messaggio subliminale. Fatto sta che la seconda traccia parte riflessiva e finisce in gran festa, grandi schitarrate e ritornello da perdere la voce ad un concerto.
Scott McMicken (Taxi), una delle due voci della band, rivela che le chitarre sono passate da essere problematiche ad essere eccitanti, e lo si capisce bene andando avanti nella scaletta passando al terzo brano “These Days” (catalogabile come puro Indie-Rock), anche questo live deve essere una discreta sudata. Da qui in poi inizia la passeggiata tra i generi prima accennata. Tendenzialmente si abbassa il ritmo ma mai l'intensità, supportata da testi sempre brillanti. Si accarezzano i Beatles in “Over Here, Over There” ( ai tempi di “Please Please Me”) e “Warrior Man” (ai tempi di “Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band”). Qualche coccola al Rock con “Vampire” e “Big Girl”. Ricordano il precedente album “Shame, Shame” (2010), le sonorità di “Get Away” e “Do The Trick”, con gran spolvero di tastiere. Percussioni tribali invece accompagnano la falsettata “Heavy Light”. In chiusura c'è “Turning The Century”, che ricorda la dolcezza dell' Anti – Folk dei The Moldy Peaches.
A mio modesto parere, che peraltro l'altro condivido, davvero un bel lavoro. Completo, piacente, adatto ogni stato d'animo e climatico. La voglia di andare ad un loro concerto tocca l'apice subito dopo i primi tre brani.
“I don't expect you to believe me, but everything is alright”.


Voto:
◆◆◆
Label: Anti Records


Amerigo Verardi / Marco Ancona – Il diavolo sta nei dettagli (Recensione)

Amerigo Verardi / Marco Ancona – Il diavolo sta nei dettagliOttimo sodalizio questo che lega artisticamente due bei nomi dell’underground italiano, Marco Ancona voce e chitarra dei Fonokit ed il cantautore Amerigo Verardi, duo di poetica scorrevole, plexiglass e suoni a caldo che si fondono dentro un estuario di canzoni per irrompere sullo stereo come una massa colorata e stordita di piacere.

Il diavolo sta nei dettagli” – primo album in studio del duo – è un bizzoso e visionario pop-rock, a tratti cinematica, psichedelico, scazzato e trasparente nelle pulsazioni a zig zag dei primi Bluvertigo Un’onda non frena”, “Pure questo è amore”, un nove pezzi che hanno la straordinaria capacità di “parlare” il loro contenuto, prima, durante e dopo del suono, che s’incazza senza escandescenze contro il diavolo che abita la società dei magnaccioni che ci circonda come un assalto di Giubbe Rosse accalorate; il duo – in questo viatico sonoro – ci fa da guida attraverso il campo minato dell’odierno, e lo fa anche con sarcasmo e poesia elettrica sfacciata, con quella forza espressiva che rimane in definitiva il nucleo portante della loro arte di penna, se poi vogliamo aggiungerci la perfetta texiture vocale dei due heroes, tutto prende l’alto, oltre la lode.

Dopo il consiglio di grassettare con l’orecchio la traccia n.7 “Contatto” con la stupenda prosa narrante di Vincenzo Assante verso Pasolini, via libera con il rock a ventosa “Gente che ti vuole bene”, a spasso con la coinvolgente fusion d’armonici acustici che fanno Southern/mex-things lungo la ballata “I figli dei Mirafiori”, nasi espansi sopra i dolciastri profumi di Carnaby StreetMajorindielosersuperstar” e alla fine chiudere gli occhi come una cerniera lampo e sognare sull’amore stratificato ed avvolgente che “Mano nella mano” rilascia come una metafora di un assoluto rapporto interiore ed urbano.

E’ un disco che va maneggiato con molta cautela, non perché chissà cosa nasconda tra le pieghe, ma perché fa parte della schiera di quei dischi che una volta aperti ed ascoltati ti fanno ostaggio della loro incredibile quanto subdola bellezza.

Voto: ◆◆◆◆
Label: Lobello Records


venerdì 17 febbraio 2012

L'Amo - Di Primavera in Primavera (Recensione)

L'Amo - Di Primavera in PrimaveraIl trio partenopeo denominato "L'amo" si avvale della facoltà di stordirci, in poco più di venti minuti complessivi, con una raffica di tracce in cui il "non sense" regna sovrano.
Di Primavera in Primavera confonde. Come confonderebbe una secchiata in testa lanciata da tre amichetti disgraziati. Arriva inaspettata, ti disturba sei secondi e poi giù a ridere. Ci invitano a giocare e si gioca molto. Si gioca con titoli che puzzano di ironia bastarda (Dura la vita del superdotato, Dale Cooper sei un feeesso!) e si gioca a gettarsi in faccia una modalità compositiva che pare immediata, urgente, grezza. In due parole: lo fi. Il cantato è un urlo corale quasi da stadio, disarticolato e prepotente. I ritmi sono basic, scanditi in maniera ossessiva, proprio come una marcetta, un anatema per sfigati che hanno solo e soltanto voglia di esprimersi, senza troppe pretese, gridando al vento scemenze, così come gira. L'Amo richiama dunque le sonorità di Verme, ne ricorda l'irrequietezza e l'ansia espressiva, e forti sono anche i rimandi ad inni sporchi e grossolani di band come gli Altro. Siamo qui però aggrediti da intro che ingannano, come inganna il poetico titolo dell'album, creando atmosfere pseudosofisticate o irriverenti destinate a soffocare in un approccio decisamente punk. L'innovazione sta proprio nell' introduzione di synth, un originale accostamento fra sonorità da videogioco e sottofondi musicali grezzi, emocore, quasi a volersi dare un tono per il puro gusto dell'autodissacrazione.
L'ironia pungente e maleducata di canzoni come "Le parole sono orpelli del METAL", "Sulla Svirilizzazione di Quagliarella" e "Curzio Malaparte", l'introspezione frettolosa di pezzi come "Sembrava facile" o "Distratto" e momenti di puro synth senza parole in "Aurelio De Laurentis, musa e maestro": questi i temi cari al trio e queste le modalità comunicative utilizzate per presentarci un nuovo e scanzonato punto di vista sulle cose.
E' come andare a spasso per Napoli con i soliti tre scugnizzi sciagurati, trasandati e caciaroni, provare a guardare il panorama con i loro occhi, intristirsi un pò, capire, e poi sentire l'urgenza di commentare sguaiatamente. Camminare e dissacrare, canticchiando canzoni a rallegrare l'atmosfera e sbeffeggiando chiunque, qualsiasi cosa si muova in superficie. L'amo si impone con sfacciataggine. Vuole ridere con noi di quello che c'è attorno con canzoni sfrontate che in fondo in fondo fanno riflettere, o in fondo in fondo forse no. "Di Primavera in Primavera" è dunque un album impertinente. Una burla sonora.
Ci ritroviamo, a fine ascolto, come ragazzacci, a ridacchiare alla Beavis and Butthead, salvo poi restare due minuti sospesi. Con qualcosa di irrisolto addosso, qualcosa di incompleto, sconclusionato come le tracce ascoltate.
L'amo ci lascia con lo sguardo confuso. E la bozza di un sorriso in faccia.

Voto: ◆◆◆◇◇
Label: Fallo Dischi


giovedì 16 febbraio 2012

Il Buio - Via della Realtà 7 (Recensione)

Il mio primo approccio con Il Buio è avvenuto una sera in cui ero triste, nervosa e incazzata. Mentre parlavo della mia rabbia ad una persona che non mi è né troppo vicina, né troppo distante.

“Ti sei mai sentito così?”

Una domanda viziata dal solipsismo che, in condizioni di malessere, ti convince che nessuno possa comprenderti.

La risposta, in quel momento inaspettata: “A volte mi capita tuttora.”

Sandro mi passò allora due canzoni che non ho mai smesso di ascoltare.

“Via della realtà, 7” è il secondo Ep della band vicentina. A un anno di distanza dal precedente “Il buio”, sembra volerne confermare gli echi hardcore stile True Sound of Liberty, filtrandoli al contempo con una maggiore cura per il suono, tipicamente nostrana e desunta dalla forma rock. Condensando il tutto in due soli brani dalla straordinaria carica comunicativa.

La titletrack irrompe con un rullante che pretende attenzione, che incede impudente e imperioso a preannunciare un messaggio importante. Le liriche ricercate e sostenute da chitarre vicine ai Drive like Jeuh schivano ogni pericolo di precipitare in una facile retorica, descrivendo una “realtà” personificata in un “matto mezzo nudo che si agita e sbraita”. Contro il perbenismo delle apparenze rappresentato dalle donne che “si coprono gli occhi con i foulard”. Contro il potere costituito del rosario e dello sceriffo con il manganello. Contro quei meccanismi che creano la paura per convincerci della necessità di un apparato di difesa dalla vita stessa, a causa dei quali “si chiudono le porte a due mandate”. La descrizione della verità assume dunque toni surreali, si citano personaggi di fantasia o ormai passati al mito, simboli di libertà quali Robin Hood e Casanova, come se l'unico modo possibile per appropriarsi del proprio presente, di questo tempo che annulla la distanza tra fiction e identità coniando l'ossimoro del reality show, fosse quello di prefigurarlo in maniera diversa, attraverso la lente deformante dell'arte e della creatività, di quel “circo in città”, di un matto che pur sedato con “la morfina ed i graffi sulla schiena” è riuscito a turbare la routine con il suo potere carnevalesco.


E poi, “Inno generazionale di noi sfigati”, cover di Caso.
L'originale del cantautore bergamasco e la versione de Il Buio rappresentano due modi differenti di esprimere la stessa urgenza comunicativa.
La prima, armata solo di una chitarra acustica, non si preoccupa di avere un arrangiamento ricercato, ma consegna alle forza di parole chiarissime il proprio messaggio. L'immediatezza è sconvolgente: ne è la misura il tempo che si impiega per imbracciare il proprio strumento e cominciare a suonare.
La seconda affida alla musica la propria voglia di dire, il testo a volte ne è subissato, ma il contenuto è ben espresso da chitarre elettriche impietose e da una sessione ritmica che pulsa come un cuore impazzito.
Due diverse declinazioni del punk, riassumibili in una sola frase: “Siamo quelli che non sanno mai aspettare e ancora prima di saper suonare eccoci qua, con le nostre pessime canzoni che non cambieranno la storia, che nessuno mai canterà a memoria.”
Una canzone che ha il coraggio di riconoscere nella mancanza di un'identità collettiva e nella conseguente disgregazione della propria intimità il vero legante di una generazione che dimentica di essere tale. Che si guarda bene dal rischio di scivolate in facili piagnistei e fonda il paradosso di un nichilismo reattivo nel momento in cui riconosce che, pur conscia dei disvalori, la prima persona plurale ha ancora un senso. Che ti distoglie dal pensiero di essere l'unico al mondo ad essere triste, nervoso e incazzato, costringendoti ad accorgerti che ci siamo noi. Ad accorgermi che Sandro si sente come mi sento io.

Un ultimo appunto sulla veste grafica (serigrafia su cartoncino ondulato) e sulla scelta del 7” in edizione limitata, 300 copie tirate a mano. Contro l'astrattezza della musica virtuale, il disco ci restituisce la tangibilità dei solchi magici del vinile. Quasi a significare che la musica de Il Buio non ha nulla di metafisico, perché ci troviamo, appunto, in Via della Realtà.

Le soluzioni afferiscono a quella cura per i dettagli e, ancor di più per le proprie idee, in cui giace probabilmente il riscatto di questa generazione di sfigati. Perché, grazie al buio che ci costringe ad affinare lo sguardo e vedere una realtà altra, possiamo continuare a sperare. A volte mi capita tuttora.

Voto: ◆◆◆◆◆
Label: Corpoc

Tony La Muerte Onemanband – DimonioColombo (Recensione)

Tony La Muerte Onemanband – DimonioColomboSembra di stare ad ascoltare quegli allucinati Medicine Show che arrancavano per tutti gli States offrendo a voce serrata, prodigi, unguenti prodigiosi, crisi mistiche e rivolte di popolo nascoste dietro a pomate e filtri d’amore sciamanici; Tony La Muerte è italianissimo ma con la testa sta dentro la sua America di provincia, arsa, credulona, è un onemanband focoso e matto come un cavallo, ma si sa, i cavalli hanno molta saggezza in corpo ed in testa, suona come una matteria ambulante una chitarra resofonica e slide, batte come un ossesso un rullante a pedale e strapazza un organetto elettrico, uno spettacolo di suoni blues, southern, di frontiera che rincorrono gli urli e la giugulare gonfia dell’urgenza punk-Hc, un nostrano Eugene Huntz con la maledizione di un Eric Sardinas in miniatura.

DimonioColombo” è il suo quindici tracce, il suo delirio fatto disco che quest’artista del clamore ci propone, ed è una calorosa sventagliata di sfoghi appassionati, nitroglicerina e nervi tesi, un happy riot sonico che colpisce in faccia come un cazzotto di prima mattina, una sequenza impressionante di bussi e controbussi che adrenalizzano pure l’aria circostante: un’uscita discografica che è subito proposta interessantissima, forte di un’abilità scenica e strumentale che mostra tutta la carnalità di un artista che non ama i preliminari, subito al centro della rabbia e di una dolcezza “a modo” che non passa inosservata, ma più che altro, udita.

Il Veneto La Muerte – tutto sommato – fa detonare ed esplodere un folk’n’roll stupendo per quanto sfrontato che prima ossessiona, poi se ricaricato un’altra volta sul carrello LG, mostra i denti e tutto il mood sanguigno che contiene a stento, e da lì poi passi una bell’oretta a giostrarti virtualmente tra ricordi di Shouters incalliti e lamette Wilkinson-Punk, indemoniato come pochi; di tranquillo e pacioso ci sono i 21 secondi di “Clap, bastardo,clap”, i 29 secondi di “Tramontana”, i 31 di pathos mescalinico “John”, poi partendo a caso dalla bella danza a cerchio disegnata in “Colombo” tutto prende fuoco, il bel fuoco sacrificale di “Elettrico”, “Verso la catastrofe” e l’intreccio di corde anfetaminiche che legano “Ho finito il sudoku”.

Si, questo dobro-man è proprio un cavallo pazzo, imbizzarrito e fuori regola, ma un cavallo su cui puntare per il futuro perché di “biada” né da a tanti, credete.

Voto: ◆◆◆
Label: Black Nutria Label

mercoledì 15 febbraio 2012

Atari Teenage Riot - Riot in japan 2011 (Recensione)

Atari Teenage Riot - Riot in japan 2011Riots in Japan. Abbiamo parlato a lungo su queste pagine degli Atari Teenage Riot, l'importantissimo act fondatore del digital hardcore tornato alla ribalta dopo il singolo Activate e soprattutto dopo la pubblicazione, da parte della Dim Mak di Steve Aoki, dell'ultimo lavoro in studio "Is this hyperreal"? e gli abbiamo dato cinque stelle, abbiamo visto il loro live all'Alpheus a maggio per la promozione del suddetto, colui che scrive è egli stesso un grandissimo fan. I nostri, a pochi mesi di distanza dal full lenght, ci presentano un disco live non imprescindibile per il neofita ma importante per chi segue per devozione il trio formato da Alec Empire, Nic Endo e Cx Kidtronix. Il lavoro fotografa al meglio alcune performance di un gruppo rinato, ritrovato, amato e allo stesso tempo criticato, amato da chi è appassionato della musica elettronica come wagneriana Opera d'Arte Totale, concetto applicato a certa musica degli anni '90, odiato dai musicisti da cameretta e dai critici odierni in quanto considerati casinisti e old school. Ma se voi, lettori, appartenete a queste due categorie, potrete godere appieno della rassegna dei pezzi live che variano dal disco di debutto 1995, successivamente ripubblicato come Delete yourself! fino al lavoro più recente. Lungo l'arco di venti tracce che rappresentano una buona fetta dei loro successi scoprirete le doti declamatorie di Empire, il rumorismo della giapponese Endo e, un po in sordina, gli appoggi del "newcomer". Questo disco arriva dopo il best of - live Burn berlin burn e dopo il live @ Brixton academy, molto diversi. Questo si ricollega idealmente al primo titolo citato in quanto costituisce un altro best of, e sarà utile come riassunto. Il disco si apre con Activate e si conclude con Revolution action. E' inutile parlare dei brani in quanto tutto è stato detto, basterà ricordare che se la seconda, opener del loro terzo disco 60 second wipeout, pubblicato prima dello scioglimento in seguito alla morte dell'mc Carl Crack, ha rappresentato il loro anthem generazionale degli anni '90, Activate, a dieci anni di distanza, ne ha ripreso il discorso e ne ha sancito il titolo di anthem degli anni 2000. E tra classici come Start the riot, Into the death, Speed e inedite live come Get up while you can e Sick to death, l'ascoltatore troverà i nuovi inni, a tratti più ragionati e ad altri di eguale portata devastante, dalla succitata Activate a Codebreaker, fino all'esecuzione magistrale di Rearrange your synapses, una delle loro migliori sfuriate di sempre. Vi auguro un buon ascolto con la vostra ampia fetta di classici, chiunque li ama e li ha visti live sentirà riscatenarsi l'adrenalina di voler essere lì, davanti a quel palco, ad urlare e a pogare. Imprescindibili loro, non imprescindibile il disco, ma cosa importa, sono gli Atari Tennage Riot. What did you say?

Voto: ◆◆◆◆◆
Label: Dim Mak Records

Quakers and Mormons - Funeralistic (Recensione)

Quakers and Mormons - FuneralisticChe cos'è l'amor... chiedilo ai Quakers & Mormons che per il giorno di San Valentino scelgono di far uscire il loro nuovo album dal titolo "Funeralistic".
Per la cronca, è il 14 febbraio 2012 dove c'è ancora tanta neve in giro, caduta in "free download" provocando molti disagi, soprattutto quello di dover rimanere a casa senza niente da fare, per fortuna che i due - già attivi nei My Awsome Mixtape - preoccupati per l'incolumità dei nostri cervelli fumeggianti, in pronto soccorso ci offrono il rimedio alla noia di queste burrascose giornate. Oltre esser stata una gradita sorpresa questo nuovo lavoro si presenta ricco di novità, che vanno a rafforzare l'ardua scelta di intraprendere una strada per niente semplice. Calarsi nei panni di due incappucciati predicatori non è da tutti e se nel precedente "Evolvotron" si sentiva ancora troppo il sound dei My Awsome Mixtape, in questo troviamo un duo seriamente intenzionato ad una svolta netta verso l'Hip-hop sperimentale, grazie alla produzione di Riccardo Gamondi (Uochi Toki). Cè un vasto assortimento di generi, come in "Unconsciousness" dove tendono al Drum and Bass, il cantanto resta fermo sull'hip-hop a parte nei ritornelli come in "Expire", mentre in "Burial Ground" è forte l'influenza di M.I.A., il pezzo successivo "Wooden Embrace" invece prende molto dal Dubstep di Skrillex. La particolarità dell'album risiede nella giusta apertura a riechi orientaleggianti come nel brano inziale "Almost Dead" e "Burial Ground", dove sembrano molto vicine alcune ritmiche arabe alla Omar Souleyman. Se c'è qualcosa che amo veramente questa è la musica, buon San Valentino amore mio, grazie per il bellissimo regalo.

Voto: ◆◆◆
Label: La Valigetta

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