mercoledì 1 febbraio 2012

Mark Lanegan Band - Blues Funeral (Recensione)

Sette come le meraviglie del mondo. Sette come i vizi capitali, o come i metalli impiegati nell'alchimia. Sette, come gli anni necessari a Mark Lanegan per regalarci un suo nuovo album.
Dal 2004 a dire il vero non ci aveva tenuti del tutto digiuni, confezionando tre interessanti prove discografiche con l'ex Belle and Sebastian Isobel Campbell, in un sodalizio accattivante, partito in sordina e consolidatosi durante il percorso. Da “Ballad of the broken seas” (2006), in cui la personalità di Lanegan appariva preponderante rispetto a quella della cantante scozzese, fino ad “Hawk” (2011) i progressi sono tanti: si passa dalla semplice giustapposizione di stili ad un melting pot di tendenze ben amalgamate, dal folk-blues al pop allo swing. E una volta arrivati all'apice di questa intesa, il cambio di rotta. Un album firmato Mark Lanegan band, il primo dopo “Bubblegum”. “Blues funeral” ha un titolo emblematico, che impone immediatamente una riflessione: davvero Lanegan è pronto a seppellire l'eredità di quei bluesman che sin dalla sua prima prova solista tingeva di nero il suo cantautorato? È probabile che ci sia da parte dell'ex Screaming Trees una qualche volontà di distacco, che a livello formale si configura, ad esempio, nell'assenza di quelle voci corali che in pezzi storici come “Wedding dress” si riallacciavano all'immaginario del canto nelle piantagioni. Nulla a che vedere dunque con le background voices di “Levithan”, che creano piuttosto un gioco di rimandi tra Lanegan e la sua solitudine. Le sonorità si aprono a soluzioni nuove, come l'uso molto ampio di synth e tastiere (soprattutto nella bellissima e sognante “Harborview hospital”) o l'elettronica vintage di “Ode to sad disco”. Verrebbe da pensare che sì, questo è effettivamente il funerale del blues, di quel blues tanto amato, vissuto, incarnato da un cantautore che, al pari di molti grandi, non ha posto alcuna distanza tra la sua vita e la sua musica. Ma, in una questione così delicata, non possiamo non tener conto delle parole di Chester Arthur Burnett, in arte Howlin’ Wolf, uno dei massimi rappresentanti del genere: “In molti chiedono cos'è il blues. Adesso ve lo spiego io. Quando hai cattivi pensieri, hai il blues, perché nel momento in cui hai cattivi pensieri stai pensando al blues.”

Ed è per questo che nel momento stesso in cui Lanegan teorizza con tristezza la fine di quello che è un genere e allo stesso tempo un modus vivendi, quella malinconia prende il sopravvento, e il risultato è il più blues degli album che la sua carriera solista abbia mai prodotto, perché più intimo e per questo maggiormente in grado di dialogare con le nostre emozioni. Epurato nella forma dall'influenza delle “canzoni dei campi”, ne conserva e ne amplifica la sostanza, seguendo un percorso più compatto rispetto a “Bubblegum” e al tempo stesso più ricco di sfumature, estremamente vivido e vivo. Pezzi dalla disarmante carica energetica si alternano a canzoni struggenti e mai scontate. Appartengono al primo gruppo l'iniziale “The gravedigger's song”, singolo che ha anticipato l'uscita dell'album. Una delle canzoni d'amore più belle che siano mai state scritte. E poi “Riot in my house” e “Quiver Syndrome”, echi stoner mutuati dal periodo della collaborazione con i Queens of the stone age. Nella seconda categoria, si attanagliano alle viscere più di ogni altra “Bleeding muddy water” ,“St Louis elegy” e “Deep black vanishing train”: la sensazione è quella di perdersi ed affondare in un elemento primordiale, liquido amniotico dell'anima, radice di ogni felicità, di ogni disagio. La voce – quella voce – che ti spoglia e ti costringe a prestare attenzione all'odore degli umori e di sudore lievemente acre. Che distilla lo spirito come fosse il migliore dei whiskey invecchiati. Invecchiato di sette anni, Lanegan non si smentisce, regalandoci un album che è insieme meraviglioso, vizioso, e alchemico.


Voto: ◆◆◆◆
Label: 4AD

5 comments:

Sotterranei Pop ha detto...

Bella recensione come quella di mia figlia su debaser. 2 punti di vista differenti che centrano molti aspetti di un disco (per me) ottimo.

Roberta D'Orazio ha detto...

:) Infinitamente grazie. Come ho detto su Debaser quella di Molly è scritta benissimo, ma il mio punto di vista, espsto qui, è agli antipodi. Mi piacerebbe avere un tuo parere sul disco, più articolato. Il mio l'ho espresso in maniera fin troppo ampia, anche se tanto ancora ci sarebbe da dire...

Anonimo ha detto...

Avevo letto pessime recensioni sul disco.
Non di funerale del blues si diceva. Era il corpo freddo di Lanegan stesso sotto 'autopsia'. 'Orrore' gridato sulle note di Ode to Sad Disco, come di relazione extraconiugale con sonorità synth, just to name one.
Lo sto ascoltando ora, e la neve scende dalle finestre. La mia mente ai '90, Rimini, Velvet, Screaming Trees leggendari sul palco. Un link istintivo gridato da un cuore che ammutolisce ragione e distaccati giudizi.
Brividi.
Non credo di freddo.

Roberta D'Orazio ha detto...

Anonimo, mi viene da dire: "Grazie", premettendo che queste due sillabe per nulla sono in grado di racchiudere la sensazione bella che può dare il pensiero che qualcuno condivida le tue emozioni. Credo, personalmente, in una forma bigotta di conservatorismo che induce a pensare che un artista, per essere grande, debba necessariamente ripetersi, riproporre gli schemi che l'hanno reso gradito al pubblico, salvo poi lamentarci si scarsa originalità. Lanegan avrebbe potuto fare un album identico a "Field songs" e tutti ne sarebbero stati felici. Ma con un atto di coraggio che solo agli intrepidi è concesso, ha scelto di cambiare rotta. E se di depurano le orecchie dai pregiudizi, si guadagna un ascolto che scalda il cuore, in un modo nuovo. E' sempre così bello sorprendersi.

Anonimo ha detto...

Anonimo Veneziano


A me me piase!

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