venerdì 3 febbraio 2012

Xiu Xiu - Always (Recensione)

Xiu Xiu - Always Ci sono diversi modi per rimanere chiusi da qualche parte, e diverse sono le sensazioni che una simile situazione può provocarci. C'è il fremito avvolgente degli amanti che, complice un giro di chiave nella serratura, si abbandonano al naufragio dolce delle proprie intime voglie. C'è il terrore claustrofobico di un ascensore bloccato: il segnale d'allarme non funziona, l'urlo si ripiega nella gola tentennando sulle corde incerte dell'imminente crisi di panico. C'è chi gioca, protetto dalle pareti ovattate della propria infanzia. Chi si nasconde nell'armadio per non essere trovato, dagli amichetti o da un mostro adulto. Nulla di tutto questo manca in “Always”, ultimo album degli Xiu Xiu. La band nasce nel 2000 e, fregandosene del sole californiano, esordisce dopo due anni con “Knife Play”, in cui l'abisso new wave incontra un electro-noise nevrotico da cui emerge, incontrastata, la complessa personalità di Jamie Stewart, cantante e strumentista nonché unico membro fisso del progetto. Da allora gli Xiu Xiu hanno prodotto otto album, di cui quattro bellissimi (“Knife play”, “Fabulous Muscles”, “A promise” e “The air force”), due Ep e una raccolta di remix e cover. Non si sono risparmiati collaborazioni importanti - tra tutti, il cantautore psych folk Devendra Banhart e i torinesi Larsen - né cambi di formazione. Ultimo, il doloroso distacco di Caralee McElroy, cugina di Jamie e ulteriore colonna portante del progetto, e l'ingresso nella band di Angela Seo alle tastiere, al Nintendo e alle percussioni. È con questo nuovo assetto che ci propongono la loro nona fatica, che porta alle estreme conseguenze una cifra caratteristica del loro percorso artistico: l'idea di una segregazione dell'anima, in cui le asfittiche e tormentate interiorità di Stewart trovino un rifugio di fortuna. Non c'è, in “Always” più che negli album precedenti, la volontà di una comunicazione esteriore: tutto è incentrato su una forma di profana clausura, che si manifesta nell'elettro-tango di “Chimney's afire”, la cui passione funesta risuona nelle percussioni che si affannano, incalzano e si dissolvono infine in un verso indistinto. O nell'ossessiva paranoia di “I love abortion”, una specie di stanza degli incubi in cui loop come lame non lasciano scampo, gli stessi che furono protagonisti di pezzi come “Ian Curtis' wishlist” e “Bishop CA”. Ancora, nella rassegnazione fluttuante della bellissima “The oldness”, voce, piano ed elementi di disturbo. Ma la dimensione preponderante, che amplifica e al tempo stesso edulcora i fantasmi, è quella del gioco. I videogames modificati di Angela Seo, figli di una linea d'azione che gli Xiu Xiu avevano intrapreso con “The air force”, sortiscono un duplice effetto, creando momenti di tensione e sciogliendo quella tensione nel medesimo istante, ricordandoci che si tratta, per l'appunto, di un divertissement. E noi siamo al sicuro, nella nostra cameretta. È ciò che accade con “Gul Mudin”, un attacco che sembra mutuato dalle inquietudini dei Goblin, ma la tensione si scioglie nella ricerca di soluzioni che fanno pensare più, per l'appunto, ad un esperimento ludico. Come se gli Xiu Xiu altro non fossero che bambini che gattonano sporchi su un pavimento antico e di inestimabile valore, graffiandolo con un atto sovversivo che solo all'infanzia è concesso e che pure è punito. E se Stewart e soci mettono in crisi le categorie con un progetto musicale che è post-ogni cosa, sarà pure possibile rintracciare alla base l'influenza dei Joy Division soprattutto in pezzi come “Born to suffer” e “Smear the queen”, filtrata attraverso la vicinanza dei Former Ghosts e rielaborata in modo intimo e personalissimo. Canzoni come “Honey Suckle” possono apparire più canoniche, fino a quando un rumore o un suono inatteso ci distolgono dall'idea che gli Xiu Xiu possano piegarsi ai mostri della prevedibilità, proprio perché la loro non è musica del pensiero ma dell'anima, sulla quale non possiamo attaccare volgari etichette. Quasi tutti i brani terminano all'improvviso o sfumano nell'inconcludenza, in un coito interrotto sonoro, come se ci fosse sempre qualcuno pronto a schiacciare il tasto “pause”, come se fossero tutti discorsi sospesi, irrisolti. Perché non esistono finali definitivi, ma solo piccole interruzioni. L'orgasmo in questo album non arriva mai, un crescendo di piacere e bellezza lega le ultime tre tracce (da “Factory girl" in poi) ma la conclusiva “Black drum machine” dilata suoni e silenzi in un'ipnosi che non ci concede l'agognata esplosione. E per questo si è costretti a ricominciare da capo, ascoltando “Always” ancora, ancora e ancora. L'ascoltatore è l'amante a cui Stewart, dalla sua camera segreta, impone l'in or out. Entra dentro e, in tal caso, non uscire. Ed è esattamente ciò che accade, con un album che, al di là di tutte queste mie sciocche ed emozionate parole, è sintetizzabile in un unico verso dei Tool.

Finding beauty in the dissonance.


Voto: ◆◆◆◆
Label: Polyvinyl Record

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