venerdì 14 novembre 2014

Ruggine – Iceberg (Recensione)

Ogni azione causa una reazione”. Forse l’alluvione che colpì il paese natale Narzole, come tutto il sud del Piemonte, ha segnato un precedente imprescindibile nell’immaginario dei Ruggine, come se i quattro fossero da quel momento beneficamente condannati a una forma espressiva feroce e inesorabile come una calamità naturale. Così, a vent’anni esatti dal cataclisma, Iceberg lo ricorda esplicitamente nell’artwork, indirettamente nella violenta esattezza dei suoni e inconsciamente nella scrittura affilata delle liriche: il noise modellato sull’impalcatura del math rock è percorso da versi essenziali e icastici, che dimostrano come sia possibile sfruttare i mezzi espressivi della lingua italiana senza piegarla all’emulazione dell’inglese; forse la declamazione di scuola Massimo Volume è la soluzione, per uscire dalle gabbie del bel canto o dell’imitazione ingenua. 
La deflagrazione iniziale di "Babel" è una dichiarazione d’intenti incendiaria: una chitarra inumana doppia la batteria, già di per sé poderosa; i testi si fanno largo sebbene la voce non sia preponderante, in uno dei rari e positivi esempi in cui la registrazione non porta alla ribalta la sola parte vocale. La tensione non cala in "Raijin", plasticamente irrigidita sul doppio basso che non concede tregua: una bilanciatissima alternanza energica tra le frequenze prepara  sul finale un’accelerazione da copione, che non scivola nel prevedibile; una breve corsa sulle pelli precede un nuovo succedersi di rapide con "Ashur", soffocante nella sua reiterazione nervosa di chitarra e bassi. Gli arresti assumono fisionomia fugaziana in "Daphnia": inseriti nella struttura magmatica, preludono al rallentamento finale, che non stempera ma acuisce il livore; il voltaggio si alza poi sui bassi sismici di "Siioma", mentre la declamazione inverte la rotta, scandendo le parole con più lentezza. Poche note spiraliformi aprono una nuova finestra sulla nevrosi con "Pangea", proclama affaticato dalla gravità fisica ed emotiva dell’ammasso materico strumentale; la brutalità è sempre strutturata su variazioni ritmiche, rigorose e mai autoindulgenti, come in "Caio": il tracciato è disseminato di polvere da sparo, pronto per l’incendio disperato del finale. La voce sguscia volontariamente oltre la cortina strumentale e scandisce le sillabe in "Pinup", prima che si faccia largo la quiete sinistra di "Cds"; la nebulosa di sussurri artificiali perduti, increspata solo da note su corde solitarie, potrebbe indurre a confidare in una stasi conclusiva, ma si rivela ingannevole: il riposo in realtà prepara nuovi fragori, che si liberano e poi implodono. L’episodio forse più dilaniato del lavoro, strutturato su stop, rallentamenti e rincorse, si accascia infine esanime sullo stesso giaciglio di crepitii inquietanti e folate notturne da cui si è eretto, come un fiume che ripiega negli argini dopo l’esondazione.

Voto: ◆◆
Label: V4V/Escape Today/Sangue Dischi/Vollmer Industries/Canadese Noise Records



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