sabato 31 dicembre 2011

Franz Ferdinand - Covers Ep (Recensione)

Franz Ferdinand - Covers EpEssere shampisti è bello. E no, non è solo prendere un pezzo e strimpellarne gli accordi. E’ prendere un pezzo e ricrearlo. Rifarlo. Produrre un’opera nuova (si suppone). Anche in cinque pezzi, anche in un Ep. E così fanno i buoni i Franz Ferdinand, i quali, però, non strimpellano accordi altrui – eh, no, troppo facile, troppo visto. Sono loro che si fanno strimpellare da altri.
Che poi, dire strimpellare è un’offesa per chi si è occupato delle suddette covers. E vi dirò: mi sono piaciute. Anzi, potrei apprezzare quasi di più le cover. Nella mia modesta opinione, hanno quella marcia in più. Perché sono pensate per essere diverse. Perché chi se ne occupa sono Peaches, ESG, Debbie Harry e nientepopodimeno che i LCD Soundsystem – insomma, mica due o tre nomi cosi’, random. E io, che pensavo che l’unica cover che avrei apprezzato quest’anno sarebbe stata quella degli Arcade Fire su le note di This Must Be The Place (e non mi fa venire le farfalle allo stomaco).
Tutte le track sono senza ombra di dubbio opera di Kapranos e soci – c’è un timbro di base che equivale ad un patrimonio genetico, ed è quello che rende il sound di una band diverso da quello di un’altra. In ogni caso, il timbro in questione è parecchio flessibile, tanto da piegarsi senza sfociare nel trash anni ’90 alle tendenze più dance di Live Alone nel mondo di Debbie Blondie Harry, e in quelle più elettroniche degli LCD (per lo stesso pezzo). E poi, vai con atmosfere rarefatte e riverberate per Stephen Merrit, che ci propone una Dream Again che si muove lentamente quanto un rallenty di Wes Anderson. Elettronica cattiva per Peaches, gasa quanto una partita a GTA. Versatilità di un genus canendi (?), ossia quello dei Ferdinand? O semplicemente : si, dovevano essere rifatte? Chi può dirlo. Comunque What She Came For degli ESG spacca, e io me la sparo nelle cuffie.

Voto: ◆◆◆◆◇
Label: Domino Records

venerdì 30 dicembre 2011

Steve Aoki - Wonderland (Recensione)

Steve Aoki - Wonderland Abbiamo parlato varie volte del ruolo occupato da Steve Aoki, il fondatore della Dim Mak Records, all'interno della scena elettronica contemporanea, da ballo e non. Se la scoperta dei pregevoli Mustard Pimp ha espresso la migliore ricerca nell'electro da ballo e se la distribuzione dell'ultimo disco degli Atari Teenage Riot ha dato la possibilità ai nostri di tornare in grande stile all'interno di una grande distribuzione, ci sarebbero molte cose da obiettare sulla qualità del lavoro di Aoki come solista. Questo è evidente anche in questo disco, un disco commercialmente intelligente in cui tutte le bozze possono diventare potenziali hit single di grande successo nei club più alla moda. Vi chiederete allora perchè inserirlo all'interno del panorama di Stordisco. D'altronde sarebbe inutile parlare unicamente dei dischi da elogiare e per i quali vivere, e, considerando la sua importanza sulla scena attuale, il guru delle nuove mode Steve Aoki merita la nostra, seppur particolarmente critica, attenzione. Come detto poco sopra, il disco è l'emblema del ballo commerciale, quello che ogni compositore di musica elettronica che si rispetti tenta in ogni modo di non raggiungere. Certo, Aoki oggi viene considerato un dio e un guru, uno scopritore di talenti o, come nel caso dei suoi lavori, un abile venditore di fumo, in quanto non inventa niente, al contrario sfrutta continuamente le idee altrui. Quali? Ovviamente il dubstep, un genere, anzi, Il genere di questi ultimi anni, che sta esplodendo a livello commerciale e che sta regalando - pochi - act pregevoli e - molti - spazzatura. Non c'è niente di nuovo e di sbagliato in questo in quanto il meccanismo è sempre quello, uno su mille ce la fa. Il guaio è che il Nostro non ce la fa, basta sentire i brani in cui utilizza il genere, brani contraddistinti da una pochezza stilistico-compositiva e da una vena creativa pari allo zero. La sua non ricerca non convince in quanto tutto è stato già sentito e Aoki sembra proporci un disco che musicalmente è accostabile in larga parte agli ultimi lavori dei The black eyed peas, che fanno anche dei brani interessanti, ma estremamente commerciali e fuori da ogni contesto di musica di un certo tipo. Aoki non può e non deve rovinare tutto il lavoro che sta facendo pubblicando dischi di - cattiva - derivazione, smostrando un sound che potrebbe essere esposto molto meglio ma, soprattutto, producendo per il gusto di produrre, in quanto nella sua inutilità questo lavoro non esprime niente quindi non ha senso di esistere. Non c'è molto da dire sulle soluzioni compositive in quanto sono estremamente semplici e banali, simili a quello che ci aspetteremmo di sentire ad una puntata di Top of the pops, e questo non è un gran traguardo, ma la gente apprezzerà, apprezzerà eccome. Questo disco farà un grande successo di "vendite", o, più realisticamente, i brani contenuti passeranno per tutte le discoteche più "in". Quale futuro per la nostra musica? Se queste sono le sue espressioni, a questo punto è meglio lanciarsi su altre cose. E' inutile citare alcuni brani piuttosto che altri, vi basti sapere che sono quasi tutte collaborazioni con gli artisti più commerciali e blasonati del momento, nonchè i più sopravvalutati in circolazione, e che, più che un disco unitario, questa è una raccolta di hit da dancefloor di quarta categoria. Ci auguriamo che Aoki riesca a trovare la via del ritorno dal Paese delle Meraviglie, e soprattutto che torni coi piedi per terra. Prima di tutto la qualità.

Voto:
◆◇◇◇◇
Label: Dim Mak Records

mercoledì 28 dicembre 2011

The PotT - To Those In The Eyes of God (Recensione)

The PotT - To Those In The Eyes of GodNato come duo elettronico a Torino nel 2009, il progetto PotT (acronimo per The Parasites of the Tablecloth) si arricchisce di altri tre componenti e giunge all'esordio sulla lunga distanza con To Those in the Eyes of God. Un particolare stoner, misto ad elettronica industriale e fiumi di psichedelia; nove brani più una ghost-track che riescono nell'intento di dare nuova linfa vitale ad un genere che nel continuo contaminarsi degli ultimi anni, sembrava essersi assestato su determinate rimembranze del passato. Lo spettro Maynardiano, dai Tool a In A Perfect Circle, fa spesso capolino tra il mood generale dell'opera nel susseguirsi di déjà vu più o meno referenziali. Dal fragore dell'opening “The Hollow”, alla virata elettro in dilatazione Deftones-style di “Prison of Social Comformity”, concedendo parentesi degne di Trent Reznor (“Intimacy”), la band approda al crossover in salsa psichedelica di “Sick”, quasi ad unire idealmente Placebo con In A Perfect Circle, tracciando le linee base di un'opera che, nell'affondo nel passato, riesce in ogni caso a brillar di luce propria. I PotT uniscono alla forza granitica del loro sound, una continua ricerca d'atmosfera che nelle sfumatore post acidule di “Alice” (unico brano in italiano), nello stoner esplosivo su derive dance di “The Lost Art of Pretending”, fino alla dilatata conclusione drone di “SBV”, dimostra quanto la band sia piena d'idee ben gestite. rielaborate in un lavoro che, per essere un esordio, tende già a dimostrare una certa maturità artistica.
Un ennesimo plauso alla Sinusite Records di quel giovane simpaticone di Marco Gargiulo e il suo soci
o Duilio Scalici che sembrano avere sempre più occhio per gli artisti da annoverare tra i loro. Bravi tutti.

Voto: ◆◆◆◆◇
Label: Sinusite Records



martedì 27 dicembre 2011

L'Orso - La Provincia Ep (Recensione)

L'Orso - La Provincia EpL’orso non è in letargo!

Al contrario, si è messo all’opera, e questo suo secondo passo seguito dalla lungimirante Garrincha Dischi non è che l’inizio di una serie di Ep, (a partire dalla ristampa del primo),che ci accompagneranno per tutto il 2012, e usciranno curiosamente al cadere degli equinozi di primavera e d’autunno. In un epoca in cui di gruppi\animali ce ne sono tanti, un occhio di riguardo ho per L’orso, un progetto colorato che vede protagonisti Mattia Barro con la sua penna e Tommaso Spinelli con i suoi riccioli, ma con la partecipazione di un collettivo di artisti tra cui Christian Tonda, Davide Lelli, Gaia D’Arrigo, Matteo Romagnoli e a ribadire il concetto variopinto di freschezza a collaborare per l’apparato visivo Federica Orlati. Il loro esordio è datato 2010 con L’adolescente Ep che voleva essere evidentemente un specchio di determinate coordinate spazio\temporali, in cui il brano “Ottobre come Settembre” è stato scelto proprio come manifesto, tanto che è stato spesso usato in casi di auto citazione come nel brano cover di Serenata rap nella Compilation del Cantanovanta, ma non solo, è infatti l’anello di congiunzione con il nuovo Ep.

Ne troviamo subito l’eco ad aprire “La Provincia Ep nel brano “baci dalla provincia” , infatti la sezione ritmica riprende il brano già citato dell’Adolescente ep. Il brano forse che rappresenta al meglio il passaggio ad una dimensione più matura anche musicalmente è “Avere Vent’anni” dove il tema del precariato nel lavoro così come nella vita viene quasi sussurrato in una sorta di contrasto “ho appena iniziato la mia vita da precario, e non avrò mai te o la mia amata pensione”. Bellissima anche “Invitami per un tè” in cui in un mondo dove i modi di comunicare sono molteplici si sente ancora tanto l’impossibilità di parlarsi. Un velocissima “E Goethe” che in concerto è fatta per strappare un applauso improvviso grazie al verso finale ”i dolori del giovane me!”. Infine “Quanto lontano abiti” dove un apparato di fiati e ritmica ti prende sin dalle prime note, in un termine solo direi che è molto “groovosa”.

Una bella prova per questo giovanissimo progetto!

Voto: ◆◆◆
Label: Garrincha Dischi

venerdì 23 dicembre 2011

Radiohead - TKOL RMX 1234567 (Recensione)

Radiohead - TKOL RMX 1234567Correva l'anno 2000 quando la nostra cara band dell'Oxforshire segnò la storia con il doppio album Kid A/Amnesiac. Con questa insolita raccolta di 30 tracce i Radiohead aprirono al mondo le porte dell'innovazione e della sperimentazione musicale, segnando definitivamente il passaggio da una sonorità più melodica ad una più puramente elettronica e sperimentale, in quello che si può definire un contesto musicale globale.
Da sempre precursori e progenitori di nuove influenze musicali, i Radiohead rappresentano in maniera assoluta la figura di perfetti musicisti contemporanei, sempre attenti e plasmabili verso le nuove influenze sonore, in un retroscena musicale esageratamente variegato e in sempre più rapida evoluzione.

Con l'uscita di "The king of limbs", loro ultimo lavoro ufficiale, si può notare come le precedenti collaborazione di Thom Yorke (Burial, Flying Lotus, Four Tet, Caribou, Modeselektor) siano state decisive per portare un ulteriore cambiamento nelle sonorità dei Radiohead, che abbandonando quasi completamente melodie chitarristiche, si sono proposti con un album insolito, incentrato decisamente sulla sperimentazione ritmica e sull'utilizzo di molteplici effetti. Altra cosa che ci risulta evidente è anche il numero ridotto di tracce nell'album, solamente otto. Tutto ciò ci ha lasciato sperare che si potesse ripresentare una strategia analoga a quella di Kid A/Amnesiac, ossia di un ipotizzabile "The king of limbs part two". Chi di noi non ci ha fantasticato un po su, canticchiando le strofe finali di Separator "If you think this is over, then you're wrong.", ultima traccia dell'album.

Così, l'11 ottobre 2011 viene rilasciato TKOL 1234567, che non è propriamente una seconda parte di The king of limbs, ma una doppia raccolta di remix delle otto tracce dell'album. Questa raccolta, come il nome lascia intendere, viene rilasciata in 7 EP, tra il 4 luglio e il 10 ottobre, e vede la partecipazione degli artisti più interessanti del panorama elettronico/underground attuale.
Dà il via a questa maratona sonora lunga cento minuti Caribou -da cui la band ha preso l'idea di questa raccolta (vedere Swim Remixes)- che ad un ritmo subdolamente sincopato , spezzato da campioni vocali, incastra arpeggi e synth con il suo inconfondibile stile, siglando sicuramente una delle tracce più caratteristiche della scaletta. Seguono Jaques Green, campione del voice-sampling, che ridipinge lotus flower in un ritmo 2-step molto passionale, e Nathan Fake che quasi riesce nella mossa azzardata di vestire "Morning Mr Magpie" di una ritmica decisamente techno.
Doppia personalità e quindi doppio lavoro, è quello che Mark Pritchard aka Harmonic 313 applica in "Bloom". Prima con una dubstep vibrante, con sonorità che oscillano tra Fever Ray e Autechre, poi con una violenta marcia dal basso martellante, che mette in risalto le inclinazioni Wonky/Glith-hop del genietto di casa Warp.
A ridare luce all'atmosfera è Lone, dopo averci già sorpreso con l'album "Lemurian", ci getta in una 2-step molto emotiva, divisa da una pausa fluida e ricostituente, che ci fa riprendere un pò di fiato prima di essere stravolti da "Morning Mr Magpie" di Pearson Sound aka Ramadanman, tanto intensa quanto genialmente semplice, una traccia completamente stravolta dall'originale, costruita su di una struttura che rimbalza tra techno e break-grime. Conclude la prima parte di TKOL "Separator", rivisitata dal talento innato di Four Tet. Quest'ultimo, scompone una traccia già essenzialmente perfetta al minimo comune denominatore della purezza, lasciando intatta l'atmosfera originale senza sovraccaricarla, facendoci partecipi di una danza … tra Eros e Thanatos (lascio a voi l'ardua scelta dell'aggettivo).
Ad aprire il lato B sono Thriller Houseghost, che dona una veste techno a "Give up the ghost", e Illum Sphere, considerato dalla Hyperdub e dalla Warp uno dei più talentuosi producer inglesi, che affina perfettamente le strofe vocali di Thom con una ritmica Glith-Hop molto sincopata, che mantiene alta l'intensità della traccia senza contaminarne l'armonia. Proseguono l'onda Shed, con una techno viscerale, pulita e curata nei suoni, e Brokenchord in una dubstep che rievoca un James Blake più dark.
Con già alle spalle una collaborazione con Caribou, Altrice, utilizzando samples provenienti da ogni traccia di The king of limbs, sviluppa una ritmica downtempo, dall'alba malinconica di una Trip-Hop dei Portished, ad un tramonto ambient.
Prossima all'overdose è "Bloom" di Blawan. Questo ragazzo di 23 anni, già collaboratore di Aphex Twin e U-ziq, non nuovo a sonorità consistenti ed incentrate sull'utilizzo del basso, ci violenta con una cassa ridondante che aiuta a creare un armonia dark perfetta per un dancefloor in stile Berghain. Restiamo quindi a Berlino, a casa dei Modeselektor, urlando tra la folla che si agita per la futura hit (segnatevelo, io ve l'ho detto) "Good evening Mrs Magpie", dalla caratteristica pronuncia german-techno.
Tj Hertz continua a sviluppare il suo progetto Objekt, catapultandoci in una convulsa unione di garage, 3-step ed acid-wonk, che spiana la strada alle ultime tracce: dei Mount Kimbie con l'aggiunta post-dubstep in "Bloom" di Jamie xx, Anstam con la sua sconnessa e indefinibile versione di "Separator" e SBTRKT che con una "Lotus Flower" UK garage, chiude il sipario.
Ogni artista ha collaborato alla realizzazione dei remix secondo le proprie peculiarità, lasciando sempre trasparire il proprio stile compositivo. Siamo stati spettatori di una trasformazione sovversiva delle tracce di "The king of limbs", alcune vittime di una completa trasformazione, altre semplicemente reinterpretate.

Come ha precisato lo stesso Thom Yorke in una recente intervista, l'idea di questa raccolta è nata dal bisogno di sperimentare al di la delle loro tracce, di vedere come sarebbero mutate per mano degli artisti che li stavano influenzando.
Non avranno forse soddisfatto le aspettative dei loro ascoltatori realizzando una vera e propria seconda parte dell'album, ma quello che è certo, è che i Radiohead hanno qui realizzato ciò che in "The King of limbs" non hanno potuto fare.


Voto: ◆◆◆◇◇
Label: Xl Recordings


giovedì 22 dicembre 2011

Train To Roots – Breathin’ Faya (Recensione)

Train To Roots – Breathin’ Faya Sardegna chiama Jamaica nel sacro rispetto dei ruoli d’interscambio primari che solo la musica e la cultura può dare e ricevere, e la Jamaica dei sardi Train To Roots e molto più vicina di quello che si si potrebbe pensare, ad un tiro “in levare” per essere contemporanei in questo contesto e Breathin’ Paya - ultimo lavoro del combo – può fregiarsi di suonare “il periodo dorato odierno” del reggae degli anni zero “Shame”, “Faya”, di quelle vibrations calde e fumate che fanno estate e fresco sudore lungo tutto l’anno, ma non solo, il disco non rinuncia certamente ad innestare, ad intrecciare nella tracklist sfumature vintage e mood roots , quel move-it viscerale ed estasiato che aiuta a ritrovarsi più in un realismo tangibile che sprofondati tra le vaporizzazioni accelerate dell’incoscienza.

Dodici tracce, tra vecchi successi e nuove emozioni, che rimandano direttamente al ballabile, al lasciarsi condurre corpo e spirito nella dolce frenesia corporale di melodie carribean e dancehall, dodici sentieri che rintracciano anche memorie “Our love” , “Bad moneypulation” che viaggiano rimettendo radici nel sottogenere del reggae più morbido e soul, quello fiorito in Inghilterra tra fine ’70 ed inizio ’80; restando sulla pista da ballo o sulla spiaggia accesa di falò arriva la radiofonicita hit-wonder di “Il più bel sogno”, il caracollare sballato di “Walk” e la simpatia di sentire cantare in inglese, italiano e sardo stretto che questo ottetto sonico gestisce con innata prestanza. Tra passato, presente e futuro, i TTR dopo tre anni di stasi ripartono subito a velocità doppia, esponendosi in continuazione ad un successo che non li ha mai abbandonati e che seguita a sorridere dietro le quinte di questa Jamaica “fuori continente” che non ha fiacche di sorta, anzi continua a mordere compiaciuta la sua forza di lasciarsi dietro tutte le macchinazioni oscure che arredano i nostri nervi, nell’eterno coolness che si porta in dote come baciata da un qualcosa si superiore.

Gran rientro sonoro per i nostri sardi dreadlockkati nel cuore e nello spirito, un disco imperdibile per riddim-men impenitenti e giovani in calo zuccherino di new vibes, dub, rocksteady, umanità e drum & bass che, una volta saziati del suo pieno energetico, grideranno: imperdibile!

Voto: ◆◆◆
Label: One Step Records



mercoledì 21 dicembre 2011

Iced Earth - Dystopia (Recensione)

Iced Earth - DystopiaTornano dopo ben tre anni di distanza dall'ultimo lp gli Iced Earth, storica formazione del power-thrash americano. Una band attiva dalla metà degli anni '80 (la fondazione è infatti del 1984) e che ha dato alle stampe, nel 1990, lo spettacolare Iced Earth che li lanciò definitivamente nell'olimpo degli dei del metallo classico.

Ne è passata di acqua sotto i ponti, le stagioni sono scorse con il loro ritmo sempre più affrettato, ma il gruppo capitanato da Jon Schaffer è ancora qui a deliziarci con la capacità di scrivere pezzi di metallo rovente di grande qualità; capacità da non sottovalutare tenendo conto che oggi come oggi il metal, in senso generale, sta subendo un certo avvitarsi su se stesso e le band, nei diversi filoni tendono ad assomigliarsi un po' tutte. Gli Iced Earth hanno sempre mantenuto vivo il loro trademark fatto di epicità e di cavalcate mid-tempos cui si alternano momenti fortemente speed che strizzano l'occhio ai fasti del thrash della Bay Area che fu.

Tornano in pompa magna quindi, con questo nuovo Dystopia e sarà una gradita news per i fan più accaniti, ma anche per chi è abituato a masticare metallo poiché se con gli ultimi cinque dischi i Nostri si attestavano su una scarsa sufficienza, assegnata più per la capacità di saper compiere il loro dovere che per effettiva qualità dei dischi, questo nuovo platter invece sembra aver fatto tornare una grande vena di ispirazione a Schaffer e soci che ci deliziano con ben 10 tracce di power-thrash ben congegnato che come sempre è basato sulla potenza delle chitarre che la fanno da padrona scandendo ritmiche mid-tempos e lanciandosi qui e lì in momenti decisamente più veloci che donano una certa ritmicità al disco, che altrimenti risulterebbe piuttosto piatto. Un signor lavoro quindi, che si lascerà ascoltare con molto piacere anche da chi, come chi vi scrive, non è propriamente un appassionato di tali sonorità perchè il disco scorre e scorre molto bene riuscendo nel proprio intento di portare l'ascoltatore in una corsa verso l'inimmaginabile reale che si trova ad attraversare questo mondo. L'album infatti prende spunto da romanzi di utopia negativa come “1984” di Orwell e “Il Mondo Nuovo” di Huxley e da film come “Dark City” di Alex Proyas (l'autore de Il Corvo per intenderci) e da Soylent Green di Richard Fleischer e che in Italia è uscito con il titolo (piuttosto banale oserei dire) “2022: I Sopravvissuti”. Si parte quindi da una concezione prettamente distopica, appunto, che però lascia all'interno dei testi una aleggiante positività che porterà l'uomo oltre il baratro in cui si sta spingendo con le sue stesse mani e con le sue stesse idee.

La qualità dei brani non è assolutamente in discussione e nel suo genere potrebbe rappresentare, oggi come oggi, un lavoro che si pone in essere come una pietra angolare perchè il disco suona genuino, aggressivo, ben composto e soprattutto ben prodotto; il che mette in risalto tutte le note positive di questo Dystopia e non viene nascosto neanche ciò che di debole si può avvertire, come forse l'esaltazione della voce del nuovo cantante, troppo spesso eccessivamente sopra gli altri strumenti, ma forse l'effetto potrebbe essere voluto. Come ho già detto il disco si dipana in 10 tracce in cui fanno capolino due ballad, la prima, Anguisch of Youth, un po' più pesante e che riprende le stesse tonalità e gli accordi di un brano piuttosto importante nella carriera degli Iced Earth, sto parlando di Melancholy (Holy Martyr). Ottima comunque la prova perchè alla lunga il disco non annoia e scorre con molto piacere e devo dire ottima anche la prova del nuovo singer Stu Block (ex vocalist degli Into Eternity) che ricorda in molti punti Barlow, ma ha dalla sua una forte personalità e una voglia di fondere il cardioide del microfono; unica pecca è forse l'abuso del falsetto alla Warrel Dane, personalmente in certi momenti piuttosto fuori contesto. Comunque il ragazzo da prova di essere un vero “demonio” dietro il microfono e non si lascia assolutamente intimorire dal ruolo che è chiamato a ricoprire, anzi credo che la sua versatilità riesca a dare un tocco di varietà ancora maggiore al platter in esame.

Bentornati Iced Earth, una bella lezione di come si può ancora suonare sostanzialmente classici ed avere allo stesso tempo la capacità di essere freschi e di distinguersi nel marasma di inutili uscite affollanti il panorama metal.

Voto: ◆◆◆
Label: Century Media



martedì 20 dicembre 2011

Girless & the Orphan - The Epic Epitaph Of Our Ephemeral Epileptic Epoch EP (Recensione)

Mi è spesso capitato di avere il sospetto che alcuni generi musicali fossero inventati di sana pianta da alcuni giornalisti incauti e privi di una chiara idea sull'etichetta giusta da applicare su un qualche prodotto a loro sottoposto. Altre volte invece, pur consapevole dell'esistenza edella validità storica, restavo comunque perplessa di fronte ad alcune definizioni. Country punk è una di queste. Mi ha sempre suggerito la malsana immagine di Johnny Rotten su un cavallo imbizzarrito nei campi del Tennesee: un'esplosione di libertà – uno dei più evidenti punti in comune tra due tradizioni soloapparentemente distanti.
I Girless & The Orphan sottolineano questi legami con un EP dal titolo ironico – “the Epic Epitaph Of Our Ephemeral Epileptic Epoch” – uscito a pochi mesi dal precedente lavoro, “Some names for different girls”, a dimostrare l'urgenza di una comunicazione immediata. Un epitaffio, sì, che ha a che fare quindi con una certa carica nichilista, ma stemperata dalla spensieratezza perdigiorno del folk senza che questo comporti una perdita di potenza. Quattro tracce che non attingono tanto da quello che fu in effetti definito cowpunk – gruppi come Beat Farmers o Meat Puppets – ma che scavano fino alle origini del fatidico intreccio, scarnificando la propria musica per raggiungere l'essenziale. Lo sguardo è rivolto a Woody Gutrhie, idolo di Joe Strummer; allo stesso Strummer che duetta con Johnny Cash o Billy Bragg, o ai suoi primissimi 101'ers.
A queste istanze fondamentali, si intrecciano influenze più recenti. “Dura lex sed Luthor” risente della ruvida dolcezza di Wilco. “London”, la cui impietosa sessione ritmica evoca gli scontri della capitale messa a ferro e fuoco dall'ondata punk, ricorda la travolgente “Punk rock parranda”dei Gogol Bordello. L'apporto dei fiati conferisce a “This parking lot” un'inaspettata eleganza, che contrasta con la spontanea semplicità della finale “(pro)creating your career”. I testi raccontano sentimenti feriti e delusioni, ripiegando su una dimensione intima che quasi stupisce. O forse no, se la musica suggerisce il ritorno all'essenza. In sostanza, un EP sostanziale e sostanzioso - i Girless & the Orphan mi perdonino il gioco di parole che potrei sostituire con l'unico aggettivo utile a definire questo disco: semplicemente delizioso.

Voto: ◆◆◆
Label: Stop Records

lunedì 19 dicembre 2011

The Sea - Rooftops (Recensione)

The Sea - RooftopsI The Sea sono un duo di Newquay, Cornovaglia, formatosi nella seconda metà degli anni' 00 su ispirazione di band minimali come White Stripes e Kills. Dividendo il proprio tempo libero tra surf e jam session nel garage di famiglia, i fratelli, Alex e Peter Chisholm, affinano la propria alchimia in musica e tracciano le coordinate stilistiche del progetto, andando a puntare apertamente verso le origini di certo pop immortale (Beatles), con un occhio sempre rivolto al blues rock americano anni '70 (Cream). Il solido background pop rock, misto ad una certa cazzoneria punk stile Fratellis, è il punto di forza di una band che giunge al secondo lavoro con “Rooftops”, dieci tracce facilmente accostabili a quelle sonorità che siamo soliti trovare nelle chart inglesi. La formula proposta tende a non porre nulla di nuovo sulla bilancia, bensì è semplice prova di buone intenzioni e di un' urgenza melodica che trova largo respiro in piccole perle come l'opening “New York” (rimembranza New Radicals), le beatlesiane “Where's The Love” e “Silly Love Song”, passando per motivetti radiofonici, (vedi il piano-batteria di “Need Breathe Dream”) fino a slanci più energici su spinta muscolare come le rimembranze Hives di “Panic On The streets of Dalston” o l'attitudine hard rock di “Shake Shake”. In definitiva il brit pop che incontra l'indie contemporaneo non senza regalare attimi di puro godimento in un'opera dal genuino e facile intrattenimento.
Testati dal vivo qualche mese fa, i fratelli Chisholm hanno la mia approvazione.

Voto: ◆◆◆◇◇
Label: Pop up Records/ Lusty Records/ Black Nutria


sabato 17 dicembre 2011

Mapuche – L’uomo nudo (Recensione)

Mapuche – L’uomo nudoIl mondo, la cosmogonica inversa in cui è incapsulato il cantautore catanese Mapuche, è patrimonio di un “esistenziale” a parte, è il più storto, squinternato modo di ragionare suonato e cantato per urlare concetti, poesia da cantina e soprattutto verità sana e dritta che si possa ascoltare da qui ad un altro pianeta dell’orbita fool; “L’uomo nudo” è il nuovo capitolo di questa bella saga cantautorale, è anarchia lirica e improbabile “wall of sound” ultra casareccio, sempre in bilico tra la sbornia devota dell’in vino veritas e le lune traversali dei poeti da speack-corners delle anime urbane.

Ballate con un dio peccaminoso comanda, parole che arrivano come uno schizzo dello spirito del tempo, mucchi d’ironia ed una vena comica post-atomica sono le strutture portanti, i sesti acuti di queste undici tracce, undici piccole gocce di piacere amarognolo che fanno un disco godibilissimo, con quegli accordini pungenti, ritmi minimali, tastierine infantili, Rino GaetanoIo a scuola non ti accompagno più”, e Darwin Deez che vanno a bere un goccetto con Adam Green e Devendra Benhardt e che una volta assemblati in un’ipotetica playlist per giornate da stralunare, riempiono l’orecchio dell’ascoltatore d’un benessere inconsueto, naif.

Piccole e grandi cose in questo piccolo lavoro discografico, un nuovo tassello di quel puzzle infinito che è poi il cantautorato dell’anno zero, di quella schiera di raccontatori dal basso che arrivano a beatificare il nostro silenzio, arrivano a battere cassa quattro con storie, sogni , allunaggi, musiche e altri mille cazzi suonanti con dovizia o come viene viene e soprattutto per darci ottimi spunti per andare avanti nella conta dei giorni; Enrico “Mapuche” Lanza è un’artista all’opposto della cultura geek tanto in voga, con una chitarra acustica spenna e spizzica accordi e malumori, li mette in fila e li sputa nelle forme spoken folk “Il dromedario”, “Quando ero morto”, li spalma nelle desolazioni intime “Malvolentieri”, “L’uomo nudo”, per arrivare ad un’escursione nei genitali femminili come prosa astratta (poi non tanto) da scandagliare profondamente “Io non ho il clitoride”.

A roteare in quest’acido legalizzato formato disco oltre i musicisti di stretta Lorenzo Urciullo e Toti Valente, qua e la nascosti nei pezzi troviamo Peppe Sindona, Carlo Barbagallo, Mario Filetti, Cesare Basile e Dario D’Urso, un bel circus di note e sintomi che fanno piacere moltiplicato, e che conduce Mapuche ed il suo folk stropicciato e picaresco – specie in questo momento storico – ad essere un’inattesa e straordinaria forza regressa in avanti tanto da sembrare avanguardistica, pionieristica al contrario e bella, bella davvero.

Una cosa, ma che fine ha poi fatto quel benedetto subbuteo??

Voto: ◆◆◆
Label: Viceversa Records

venerdì 16 dicembre 2011

Vanillina – Conta fino a dieci (Recensione)

Vanillina – Conta fino a dieciIl duo dei Vanillina si è fatto attendere un po’, l’ultima volta che erano in giro è stato nel 2006 con il buon Eclisse, ma ora che è sugli scaffali col nuovissimo Conta fino a dieci, non diciamo un respiro di sollievo ma almeno una forte soddisfazione ci stringe tra i woofer e le casse stereo in nostro possesso; fin dalle prime battute il disco schiera un suono pieno e potente, l’impronta caratteriale leggermente spostata dagli esordi, ma che in passato ci aveva tanto stregato, in punta di dito e di fiato, un pop-rock viziato d’alternative domina la scena che si snocciola lungo tutta la tracklist composta di dodici saette che non hanno manie di grandezza o che vanno a puntare sull’usato sicuro, sono belle e solide di loro, e chissenefrega d’altro.

Il classico disco “sincero”, che non usa trucchi o travestimenti per farsi notare, arriva, si presenta e apre il suo cuore amplificato come una passionevole confessione che non ha bisogno di calchi o pre impostazioni, spalanca il suo bel loud su corse elettriche, urla spasimi melodici alla AfterhoursIl colore della notte”, smanetta epilettico le nevrosi punkyes “Discoteca solida”, “Monolite” riflette magari un po’ troppo su sintomi melodici Negroamareschi Levada”, “Non avere paura” “Vado via”, ma poi si riprende immediatamente agganciando gli anni novanta dell’underground italiano dei Mistonocivo, Prozac + , Soon “Vivila”, “Motel”, ricomponendo una straordinaria forza registrata che spacca e fa proseliti ad ogni giro.

L’estensione sonica di queste tracce è impeccabile, ruvide ed elettriche, lisce e acustiche come un cangiante crepuscolo che interviene a dividere il giorno dalla notte, una naturalità espressiva che fa di questi Vanillina e della loro musica, un intervallo intenso e intuitivo per chi da un disco cerca e vuole onestà e non sopruso, amicizia e spregiudicatezza di passioni e potenziale radiofonico, poi se per caso si rimane impigliati nei quattro accordi acustici in settima o aperti di “Cristo santo” bisogna fare anche i conti con uno spicchio di cuore frantumato di poesia intima rivolta ai tanti altri che soffrono in questa palla infuocata chiamata mondo.

Conta fino a dieci, un piccolo fiore all’occhiello cui andare fieri.

Voto: ◆◆◆
Label: Bilingue Music


mercoledì 14 dicembre 2011

Trent Reznor & Atticus Ross - The girl with the dragon tatoo (Recensione)

Trent Reznor & Atticus Ross - The gir with the dragon tatoo Ci sarebbero milioni di parole da spendere su Trent Reznor, che si parli della persona quanto del musicista e delle sue opere. Sì, perchè Nine Inch Nails, pur essendo un gruppo sulla carta, è, come è stato sempre ribadito, creatura dell'unico Reznor, il quale ha il controllo totale sulle decisioni e sulle direzioni che si prendono. Reznor, giovanissimo prodigio musicale statunitense nato nella piccola cittadina di Mercer in Pennsyilvania ha spesso fatto parlare di sè e in particolar modo della sua musica, una musica di confine tra tanti distinti universi musicali, una musica incatalogabile nonostante i vari critici di turno abbiano affibbiato al nome sempre nuove etichette, talvolta inserendolo all'interno della scena alternative rock, tal'altra riconoscendolo come colui che è riuscito a portare al grande pubblico il genere dell'industrial rock, un genere creato in prima istanza dagli Skinny Puppy di Mind... e, negli stessi anni, dai Ministry di Al Jourgensen, e poi proseguito dagli stessi NIN. Ma non siamo qui per parlare strettamente del gruppo - progetto, quanto di una colonna sonora scritta insieme ad Atticus Ross, già presente nel gruppo How to Destroy Angels, insieme alla moglie del musicista. Dopo il grande successo di pubblico ottenuto dalla colonna sonora dell'ultimo film di David Fincher, "The social network", arriva una nuova occasione per il musicista di dimostrarsi all'altezza creando qualcosa di veramente particolare e onnicomprensivo. Il mondo delle colonne sonore è particolarmente soggetto ad alti e bassi ed è raro trovare dei lavori veramente interessanti che possano vivere come tali al di fuori dei film stessi, come fossero dei veri e propri full lenght. Pur non considerando Trent Reznor un genio come viene definito da molti quanto piuttosto la figura di commercializzazione di qualcosa che era stato già scritto, si deve constatare che quest'opera, perchè di tale si tratta, data l'estrema lunghezza del lavoro quanto la sua estrema complessità, si conferma come uno dei punti più alti della realizzazione musicale del musicista statunitense. Si tratta di un disco particolarmente lungo e impegnativo, riflessivo, a tratti angoscioso e a tratti invece più rilassato, per quanto non ci si trovi di fronte a "musica positiva", è un'opera che richiede una grande attenzione in quanto non è, a differenza di molte colonne sonore, un insieme di brani presenti nel film e ricompilati ma un flusso sonoro che trascende gli inizi e le conclusioni delle tracce e sembra andare avanti all'infinito, portando l'ascoltatore a riascoltarlo come se ci si sentisse immersi in una esperienza onirica. Reznor e Ross sono musicisti incredibilmente talentuosi e preparati dal punto di vista musicale, e su alcune delle tracce è possibile trovare delle collaborazioni interessanti come nel singolo apripista, il brano più immediato, Immigrant song (cover dei Led Zeppelin) cantato dalla singer Karen O delle Yeah yeah yeahs o nella conclusiva Is your love strong enough?. Nonostante questo in questa sede i guest star non hanno alcun peso perchè le voci della musica sono le trovate elettroniche dei sintetizzatori e le atmosfere ambientali-surreali generate dai fraseggi melodici di grande intelligenza opportunamente distorti dai due. Per questo motivo sarebbe superfluo parlare di un brano piuttosto che di un altro anche considerando il loro numero, 39. Piuttosto, indipendentemente da quale sia il vostro giudizio sulla figura di Reznor, genio musicale o abile venditore di ottima musica, vi invito a dare più di un ascolto a un disco del quale si parlerà a lungo e che rappresenta un ottimo ponte tra l'ultimo ormai vecchio disco dei NIN, quel The slip del 2008, e quello nuovo che è stato annunciato per il 2012. Cuffie alla mano e buon ascolto.

Voto: ◆◆◆
Label: The null corporation

Laurex Pallas – L’ultima Liegi-Bastogne-Wembley (Recensione)

Laurex Pallas – L’ultima Liegi-Bastogne-WembleyStuzzicanti varianti impazzite che si fanno avanti all’interno di queste “ciclistiche” storie dei Laurex Pallas, duo composto da Carlos Pallas Pinzi (giornalista sportivo) e Fabio Laurex Alessandria (avvocato), felice combinazione e associazione d’idee cantautorali che riempiono di quell’atmosferica tensione lo-fi e off che comincia proprio dove l’ascolto è predisposto ad ascoltare qualcosa che esce - per un poco – dal potenziale singolone affannoso o dalla tiritera modaiola; “L’ultima Liegi-Bastogne-Wembley” è il nuovo lavoro del duo mantovano, dodici traccianti colorati che s’insinuano tra operettistica, frames e deliri pubblicitari inventati “Rèclame”, swing alla Caputo Quello che fai”, “Settimana neanche troppo enigmistica”, l’ossessione cameristico-computerizzata che sturba in un walzer ciondolante “ Mantra (per una canzone degli Smith) ” o che fa rinvenire l’anima fradicia di una cantilena con sottofondo alla Popcorn di Jarre “Il Colonnello dislessico”; il suono totale che ne viene fuori ha tutte le finezze di un’operetta Da-Da , un insieme di gittate impossibili che fanno immediatamente breccia in chi cerca quell’apparente “ sballo nonsense spettacolare” per cavalcare la vita con ottimismo o, magari in controtendenza – montare la vita come complicazione fattiva, per crescere con le ossa forti e l’umore acido contratto.

Il passo felpato e dark di “So quel che so” che vede l’apparizione vocale di Sara Mazo già Scisma, rincuora e fa aprire nuovi scenari penetranti e sensoriali come la tensione d’archi e sax che seghettano., come in un noir, domande e risposte, falsità e panegirici umani “Le previsioni nel tempo” o come il trovarsi incastrato tra mille contrattempi, controtempi e tempistiche in fondo non tue, ma dettate da una secca quotidianità indifferente a tutto “Incastri”; un disco che insiste nella sua particolarissima bellezza storta, un disco che va ad increspare la superficie apparentemente “aliena” delle canzoni che, d’ascolto in ascolto, si accasano nella memoria “Prandi Bruna” e nelle orecchie, senza mai disperdere il proprio fascino in una passata frettolosa di stereo.

Ottimo.

Voto: ◆◆◆
Label: Rodeo Dischi


martedì 13 dicembre 2011

The Black Keys - El Camino (Recensione)

The Black Keys - El CaminoDopo il successo di "Attack & Release" (Nonesuch Records, 2008) avevo atteso con trepidazione il capitolo successivo, "Brothers" (sempre pre Nonesuch Records, 2010), rimanendo parzialmente deluso dall'inaspettata svolta "pop" intrapresa dal duo di Akron, Ohio. Qualche tempo dopo, leggendo un'intervista alla band, apprendo con tiepida euforia che i Black Keys hanno in serbo una nuova uscita discografica; ad avvicinarmi al nuovo lavoro è una dichiarazione di Dan Auerbach, cantante e chitarrista del gruppo, il quale afferma che il nuovo album sarà fortemente influenzato da band quali The Cramps e The Clash. Basta questo per far riprendere quota alle aspettative. Inserisco "El Camino" nel lettore cd, premo "play", ma nel calderone di suoni anni 70 fatico a trovare sia Joe Strummer che Lux Interior; la cosa non mi turba affatto poiché, con piacevole stupore, ritrovo il "tiro" dei giovani Black Keys, pieno, sostenuto, coinvolgente, che già aveva caratterizzato i primi lavori, più grezzi e minimali. La presenza di Danger Mouse (Gnarls Barkley) alla regia, già dietro al mixer nei precedenti due lavori, garantisce una spolveratina ai suoni e una produzione più stratificata. A differenza del precedente episodio discografico, come già detto, torna piacevolmente a galla l'attitudine e l'urgenza rock'n'roll, portando la testa dell'ascoltatore ad un involontario, quanto naturale, movimento ondulatorio del capo difficilmente contrastabile (ma, dopotutto, perché dovremmo opporre resistenza?!). "Lonely Boy", singolone radiofonico già da qualche mese nelle playlist delle stazioni più popolari, apre le danze con un ritmo e una melodia irresistibilmente catchy, seguito da "Dead an Gone" che lascia intravedere l'anima soul del gruppo grazie agli onnipresenti coretti in sottofondo. In "Gold On The Ceiling" entra in campo con prepotenza la tastiera vintage di B.Burton a svelare in parte il segreto della pienezza sonora del duo che, nonostante ammicchi pericolosamente ai grandi classici '70, riesce sempre a risultare a suo modo attuale. La zeppeliniana "Little Black Submarine" si presenta come l'unico episodio parzialmente quieto del disco; l'esplosione sonora intermedia trasforma le trame acustiche delle chitarre in un intreccio elettrico "pageano" che spinge l'ascoltatore ad assicurarsi che sulla copertina non ci sia davvero scritto "Black Keys IV". "Money Maker" e "Run Right Back" ricordano le arie blues, grezze e nervose degli esordi, mentre in "Sister" e soprattutto in "Nova Baby" i due sembrano ricercare una strada più scanzonata e/o semplicemente più pop. Tra i pezzi più incisivi dell'album c'è sicuramente "Hell of a Season" che, sarà la chitarra in levare, sarà l'inaspettata parentesi semi-raggae centrale, suggerisce finalmente degli echi clashani, a mio avviso mai così evidenti nel resto del disco.

I Black Keys trovano, qui più che nei precedenti dischi, il giusto punto di incontro tra passato e presente senza mai abbassare il tiro, senza mai diventare noiosi. "El Camino" è il tuo vecchio furgoncino anni '70, revisionato da due giovani meccanici di paese che, oltre ad aver imparato al meglio il mestiere insegnatogli dalle passate generazioni, sono in grado di migliorare inaspettatamente le prestazioni del tuo mezzo. Qui all'officina Black Keys la tradizione va a nozze col presente.

Voto: ◆◆◆◇◇
Label: Nonesuch Records


Casa del Mirto - The Nature (Recensione)

Casa del Mirto - The NatureMi è capitato alcune mattine fa di prendere il telefono dopo essermi svegliata da poco e di chiamare i miei amici per ringraziarli per la splendida serata che avevamo trascorso in una baita in montagna trasformata per l'occasione nella location di una festa che aveva come tema “Il tempo delle mele”. A nulla valeva la loro perplessità, mentre tentavano di spiegarmi che non avevamo mai vissuto una situazione di questo tipo: mi sono dovuta rassegnare al fatto che, con tutte le probabilità, avevo solo sognato. Una sensazione di straniamento simile mi procura “The nature”, album dei Casa del Mirto, che racchiude nel titolo una sorta di paradosso insito nella chillwave. Artisti come Washout e Neon Indian – tra le influenze principali del disco – lo dimostrano: è prerogativa del genere suggerire immagini desunte dall'ambiente naturale attraverso un certo uso dell'elettronica, in una sorta di provocazione sonora. La cifra caratteristica del progetto trentino, accentuata in questo lavoro rispetto ai precedenti, è però una sorta di nostalgia. Se la motivazione profonda sia nelle sonorità anni '80 a cui si guarda con rimpianto o nella precoce interruzione di qualche sogno – le atmosfere sono oniriche, è un disco da ballare dopo un'iniezione di morfina, su suggestione di “Human nature” o “Expose yourself – non ci è dato saperlo e forse nemmeno ci importa. Degli anni in questione, “The nature” importa i contrasti, e allora, forse, la malinconia si lega alla consapevolezza del fatto che non tutti abbiano compreso che il decennio tanto bistrattato sia stato momento di ri-creazione per la musica, sia nel senso di intervallo (con l'emergere delle sonorità dance di Madonna, di cui la stessa titletrack è debitrice) ma anche nel significato di nascita di qualcosa di nuovo, come il punk e la new wave. Quest'ultima impregna ogni singola nota dell'album, che pure ci offre più di un tentativo di distaccarsi dalla fonte principale della sua ispirazione, riuscendoci in episodi come “Bulls” che tenta la strada di un rap incerto. Interessanti le collaborazioni, su tutte quella con i Cornershop in “Snap Yr Cookies”, una delle mie preferite. Nel complesso, un disco che è come un fiume: ne è chiara l'origine, ma tante sono le variazioni che incontra nel percorso, con le sue rapide e le sue cascate: variazioni che solo al mondo della natura e dei sogni sono concesse. “The nature” può non entusiasmare, ma ha perfettamente centrato il suo obiettivo.

Voto:
◆◆◆
Label: Mashhh Records



lunedì 12 dicembre 2011

Dream Theater – A dramatic turn of events (Recensione)

Dream Theater – A dramatic turn of eventsMike Portnoy “è uscito dal gruppo” portandosi via rototom e bacchette, e nonostante l’ingresso della riserva Mike Mangini, i Dream Theater non riescono a rivoltare il periodo nero che li attanaglia per aver esaurito da un pezzo le munizioni creative che gli occorrevano per difendere il loro tatticismo sonico iper tecnico, millimetrico e fin troppo lavorato al goniometro; la band americana ha perso la bussola già dagli ultimi album prodotti e questo nuovo “A dramatic turn of events” non risolleva di certo il destino nè raddrizza la parabola discendente di un pezzo di storia del prog-metal mondiale.

Da tempo sott’occhio da fan e osservatori, La Brie e soci non creano più quelle magnifiche crisi di coscienza, quegli attriti elettrici, ora rimettono in gioco – se di gioco si può parlare – più una voglia di apparire per non essere scordati nell’oblio allacciata integralmente ad una profonda confusione che produce mediocrità e cose strasentite; è un immenso dispiacere ritrovarsi questi dei in terra momentaneamente senza più ali per trasvolare in alto, e con altrettanta incazzatura si va ad evidenziare un cullarsi fin troppo vuoto, un vagheggiare da ex diavoli tecnici a giganti gentili con doppia cassa e meno buio espressivo, e tutto questo fa male, veramente male.

La solita alchimia che fece furore guardando sullo specchietto retrovisore del tempo, il nu-metal classico che batte quattro “Build me up, break me down”, l’heavy-prog che stagna nel marciume “Lost no forgotten”, il powerchord zampillante che fu la fortuna di tanti handbanger “Bridges in the skyes” o la ballatona strappacuore che sulla distanza di dodici minuti infrange, cuoce e dissangua chi di essa si è innamorato “Breaking all illusion”; nessuna mossa in avanti se non per qualche equilibrismo sospeso che fa terra franca tra rumore e rifferama “This is the life” in cui Petrucci ricama solismi chitarristici sempre pregevoli o lo specchio di paradiso che galleggia sui campionamenti e sinth che Rudess usa come un’orchestra ispiratissima “Outcry”.

Peccato per i nostri heroes del prog-metal, questo nuovo album non rinfranca in nulla, nessuna divagazione nuova, nessuna forza trainante se non i consueti numeri da gran manuale. Il resto e tutta routine, per quanto sempre di gran classe.

Voto: ◆◆◆
Label: Roadrunner records


Buen Retiro - In Penombra (Recensione)

Buen Retiro - In Penombra
In Penombra è il quarto album dei pescaresi Buen Retiro, una sorte di concept basato sul contrasto luce-oscurità/amore-odio; l'ambiente descritto a seconda delle suggestioni luminose trasmesse all'uomo dalla luna, metafora dell'evoluzione dei rapporti e dei sentimenti tra esseri umani nello scorrere inesorabile del tempo. Sospesa al centro dei due estremi, la penombra appare quasi un limbo nel quale rannicchiarsi, luogo conosciuto dell'anima dove dar rifugio a sé stessi per poi lasciarsi in seguito trasportare dalla deriva degli eventi. Il quartetto abruzzese dà atto della propria genuinità crepuscolare attraverso un post rock etereo in virata sonica. Tracce che non appaiono mai asettiche, grazie ad una gran cura dei particolari e perenne ricerca d'atmosfera, vengono avvalorate da uno splendido spleen a lasciar trapelare gelidi bui tra silenzi rotti da un uso quasi tribale del comparto ritmico e vibrazioni infinitesimali su sfondo lontano. Una cura timbrica che, seppur debitrice per certi versi ai Marlene di Godano, dona grazia ad un album poetico e convincente. La produzione di Amaury Cambuzat (Ulan Bator, Faust), noto frequentatore di casa De Ambula, è sinonimo di garanzia nell'esaltare il chiaroscuro emozionale dell'opera nella compattezza di un sound ferale ad ingabbiare la psiche. Fin dal principio, con la partenza marziale di “Canto Primo”, immersione tra le tenebre di un pessimismo cosmico (“...Più nell'oscurità io rimarrò ma volgerò il mio sguardo cupo. La pioggia, il vuoto sono il mio cielo “...”) e il tema della speranza di “Quale Luce”, si pongono le basi a quel continuo scontrarsi tra piani di natura dicotomica. Le inerzie slowcore (“Negli Angoli” e la poetica e bellissima “Montagne”), le strumentali "esplosioni nel cielo" ("Xenon"), gli accenti shoegaze (“O Cebreiro”, “Gaia”), le sperimentazioni su sentieri ambient (“Finis Terrae”), gli assalti ferali a la Massimo Volume (“Penombra”), sono tutte conferme di un flusso sonoro inarrestabile, un viaggio Dantesco nella propria personalissima selva per poi uscire a riveder le stelle.

L'unica pecca da ricercare potrebbe apparire quella di un cantato non valorizzato al massimo, spesso a sussurrare in modo spettrale alle nostre orecchie liriche struggenti, mancante di una certa incisività. Per il resto i Buen Retiro centrano il bersaglio e ci donano uno degli album più rappresentativi di questo fine autunno.

Voto: ◆◆◆
Label: De Ambula Records


sabato 10 dicembre 2011

SunnO))) meets Nurse With Wound - The Iron Soul of Nothing (Recensione)

SunnO))) meets Nurse With Wound - The Iron Soul of NothingNegli ultimi anni si assiste ad una crescita di appassionati di musica Drone espressa in tutte le sue forme, ma in molti seguaci del genere non vi è conoscenza di cosa sia realmente il termine drone e da dove esso derivi. Tanti lo associano al nome tutelare: i SunnO))), che attraverso le loro sonorità hanno riportato in auge un termine noto in realtà dagli anni '60 del '900; anche se il termine parte da ben più lontano: i primi sperimentatori di tal suono vengono fatti risalire ai primi anni del '900 con una “fragorosa esplosione” intorno agli anni'20 (sempre del '900) ad opera degli avanguardisti russi.

In realtà il termine drone, così come lo conosciamo oggi, in musica esiste da almeno un paio di secoli, ma è conosciuto con il nome di BORDONE e rappresenta esattamente il trattenere una nota od un accordo per buona parte di un brano o per la sua intera durata (questo non deve confondere con il termine PEDALE, che è un'altra figura) o lo si usa per indicare uno strumento musicale in grado di produrre note musicali sostenute (il Sitar su tutti o le Cornamuse). Per capirci, il bordone è utilizzato in pompa magna da Wagner nel suo Preludio all'Oro del Reno, in cui gli strumenti bassi mantengono per tutto il tempo un mi bemolle. Questo semplicemente per dire, che comunque il drone non è roba di oggi, non è un nuovo modo introspettivo e particolarmente oppressivo di concepire la musica e di dilatarne i confini; certo ci sono gruppi che riescono a rendere meglio di altri il senso della ripetizione e “dell'annichilimento” dell'ascoltatore e tra questi sicuramente abbiamo i SunnO))) che sono considerati la miglior espressione di quello che oggi conosciamo come drone-doom.

Tutto questo preambolo per introdurre la recensione di una nuova uscita a nome SunnO))), questa volta in collaborazione con i Nurse With Wound. Per l'occasione viene addirittura scomodato un vecchio lavoro dei SunnO))) uscito nel giugno del 2000 ed ormai introvabile (ne stanno ristampando delle copie solo adesso), e si tratta di ØØ Void. Questo lavoro viene invece intitolato The Iron Soul of Nothing e rappresenta un prezioso remix uscito dalla collaborazione di queste due strepitose band; in questo caso la parola remix non deve essere fuorviante, perchè non si tratta di un mero passaggio di missaggio o di stravolgimento in chiave elettronica dell'originario platter, ma di una totale ri-registrazione in chiave ambient-drone dell'opera. Resta intatta la cupezza orginale, resta intatta la magia catartica e resta intatta la capacità di escludere i sensi percettori per come li conosciamo noi; cambia qualcosa in seno al disegno strumentale prodotto. Questa volta non sono le chitarre a farla da padrone, ma una stratificazione di synth e campionamenti che donano una luce diversa all'opera generale; le chitarre sono utilizzate come mezzo per l'espulsione di suoni rigorosamente digitali che portano l'ascoltatore quasi ad un senso di inadeguatezza della sua umana fattura, tanta è la lontananza che si ode in merito a tutto quel che può essere considerato umano o in alcuni frangenti anche semplicemente vivente. Siamo al cospetto di una grande reinterpretazione di un caposaldo del drone-doom moderno, anche se, come ho già detto, qui non vi è traccia delle potenti distorsioni a cui siamo abituati seguendo la coppia di incappucciati.

Il viaggio si dipana attraverso quattro lunghissime tracce che mettono davvero alla prova la fedeltà dell'ascoltatore poiché qui si va giù pesante e dato che le variazioni sono pochissime si deve essere piuttosto attenti ai cambi di atmosfera celati dietro una variazione del suono o attraverso l'utilizzo dello stesso in una ciclicità alterata. Qualcosa si “muove” all'ingresso della terza traccia, quando una voce irrompe su di una effettatissima chitarra pulita che scandisce una ritmica marziale a cui man mano vengono ad aggiungersi suoni ed effetti che ricatapultano l'ascoltatore in un paesaggio sconosciuto in cui l'unico contatto con l'uomo e con la vita in generale è questa voce che suona a monito; nel mentre l'aria risuona di fluttuazioni sonore di cui si fatica a comprenderne la provenienza; l'iniziazione di un rituale sciamanico, portato alle sue estreme conseguenze, forse rappresenterebbe un buon mezzo di paragone, se non fosse che in queste visioni non vi è nulla di riferibile alla coscienza e conoscenza umana.

Come dicevo ad inizio recensione, questo disco rappresenta in realtà una nuova immensa opera che va ad aggiungersi alle collaborazioni dei SunnO))) e non un mero remix canonico a cui siamo abituati; qui si è optato per un lavoro che ha destrutturato completamente l'originale e gli ha fornito un campo espressivo ben diverso; un'opera che riscrive le sorti del mastodontico ØØ Void.

Non mi lancio in una disquisizione brano per brano perchè non avrebbe alcun senso, questa è un'opera che va ascoltata ed inglobata in se stessi in maniera totalizzante; è l'unico modo per potervi entrare dentro e provare a cavalcarne la lunghezza d'onda.

Voto:
◆◆◆
Label: Ideologic Organ


venerdì 9 dicembre 2011

St. Vincent - Strange Mercy (Recensione)

St. Vincent - Strange MercyImmaginate l'estro di David Byrne rinchiuso in un corpo femminile; ora immaginate un musical sfarzoso e barocco in stile Broadway, interrotto da chitarre a tratti distorte e dissonanti. Questo è parte di ciò che incontriamo durante l'ascolto di "Strange Mercy", terza fatica discografica della giovane e bella Annie Clark, in arte St. Vincent. Dopo anni di gavetta (nella coral/pop band Polyphonic Spree prima e al fianco di Sufjan Stevens poi) nel 2007 arriva al debutto discografico con "Marry Me" seguito 2 anni più tardi da "Actor", disco che permetterà alla songwriter di Tulsa, Oklahoma, di raggiungere una popolarità ed un consenso sempre più ampi. I grandi maestri del giallo ci hanno sempre insegnato che "tre indizi costituiscono una prova", e Strange Mercy arriva come la più piacevole delle conferme, la prova che St. Vincent c'è e non è più un'esordiente, ma anzi una realtà dalle basi solide e dalla credibilità massiccia. L'approccio alla composizione è lievemente mutato nel corso degli anni, la prevalenza del nervosismo degli esordi lascia spazio all'estro compositivo e alle atmosfere dilatate più avant-pop rendendo ancora più incisive le parentesi distorte ed i ritmi sostenuti. I tappetoni sintetici di "Chloe in The Afternoon", dalle chiare influenze bjorkiane, ci introducono in un disco che fila liscio dall'inizio alla fine nella sua eterogenea alternanza fra battiti disco (il singolo "Cruel" e la sinteticissima "Hysterical Strength" ne sono 2 validissimi esempi) e tracce in cui la presenza della chitarra emerge in maniera evidente, decisa, con un approccio mai banale (il "piacevolmente infinito" crescendo di "Northern Lights", la semi-dilatata "Neutered Fruits" ricca di cori e vocalismi, la straordinaria "Surgeon" dalle atmosfere sognanti, a mio avviso punta di diamante del disco). Personalmente, ma è un giudizio assolutamente soggettivo, risento un po' della quasi totale mancanza della sezione fiati che mi aveva fatto innamorare di St. Vincent qualche anno fa al primo ascolto di "Marrow", ma questo è un dato che, nella complessità di un disco come questo, risulta abbastanza trascurabile. In conclusione "Strange Mercy" si presenta come un disco ispirato, di grande spessore qualitativo e compositivo, un ulteriore capitolo positivo nella carriera della giovane Clark che, con un altro album a questi livelli potrebbe davvero trovare un posto prenotato al banchetto dei grandi della musica alternativa. Gli amici Justin e David (Vernon e Byrne, con i quali ha collaborato nel corso degli ultimi anni) stanno già aggiungendo un posto a tavola.

Voto: ◆◆◆◆◇
Label: 4AD


giovedì 8 dicembre 2011

Malazeta - Burattinai (Recensione)

Malazeta - BurattinaiL'opera prima dei padovani Malazeta è un concept tratto dal "Il Lato Oscuro del Nuovo Ordine Mondiale" di Marcello Pamio. Un reading rock che scatena la propria urgenza cercando di svegliare da un' acquiescenza durata fin troppo, facendosi portavoce di tematiche sociali importanti, come la critica al sistema dei media ed i complotti della storia. Dalla partenza di quel gioiellino di "Terra Santa" a porre domande sul controllo dell'essere umano sempre più incline all'attuare certe routine senza pensare, è già chiara l'inclinazione post rock del progetto nelle rimembranze di pura scuola Massimo Volume. La title track si fa allegoria, tramite l'immagine del burattinaio che muove i fili della storia, del potere di sovrastrutture segrete (gli Illuminati) e quasi come una preghiera laica auspica ad un'informazione corretta nella quale la società possa finalmente capire da sè la differenza tra giusto e sbagliato. Il post-punk di "Applausi" si pone come una delle parentesi più dirette mentre "Agosto" è intrisa di malinconia ed arrendevolezza al pensiero della sconfitta di certi ideali, con la disobbedienza che non è più una conquista in quanto relegati in una società di stereotipi ed inganni. Se la nervosa "Verità Ingiustificate" traccia le critiche a conflitti ingiustificati, nell'uso della forza militare senza validi motivi, il math rock di "Alma Ata" tratta una tematica importante come quella della salute, bene superiore di assoluta importanza "E' stato tutto deciso ad Alma Ata nel '78..." Sul finale "Meccanismo Geniale" è latore di un messaggio di grande attualità, quasi come una sorta di Giovanni Lindo Ferretti degli anni '00; la crisi economica che attanaglia il mondo d'oggi, lo strapotere delle banche, noi "vittime di un passato che non conosciamo e di un presente che c'è vietato comprendere"

Quello dei Malazeta è un lavoro molto importante. Totalmente in controtendenza con i temi delle produzioni italiche attuali nel cercare di apportare critiche costruttive ed informare le masse, Burattinai dà atto, di una visceralità rock sostenuta da buoni arrangiamenti ed una poetica generale che resta impressa a fuoco nella memoria. A distanza di decenni la scuola Massimo Volume continua a dare i suoi frutti e i Malazeta, al pari di band come Offlaga ed Amelie Tritesse, sembrano ben coglierli usando la musica come giusto tramite per elargire verità inconfessabili. Lo dicono anche loro: applausi.

Voto: ◆◆◆◆◇
Label: I Dischi del Minollo


Licenza Creative Commons

 
© 2011-2013 Stordisco_blog Theme Design by New WP Themes | Bloggerized by Lasantha - Premiumbloggertemplates.com | Questo blog non è una testata giornalistica Ÿ