martedì 31 maggio 2011
Crimen - Lies Ep (Recensione)
lunedì 30 maggio 2011
Verdena - Radar (Ejabbabbaje) (Recensione)
domenica 29 maggio 2011
Joseph Arthur - Graduation Cerimony (Recensione)
Label: Fargo Records
Voto: ◆◆◆◆◆
sabato 28 maggio 2011
Stella Diana - Gemini (Recensione)
Dopo otto anni di attività e l'ottima uscita in casa Seahorse con “Supporto Colore”, tornano i partenopei Stella Diana e lo fanno alla grande. Con Gemini si confermano definitivamente come una delle realtà in ascesa più interessanti del panorama nostrano. Finalmente un gruppo che non ha paura di spingere forte sui pedali. Senza ombra di dubbio la miglior band shoegaze italiana. Chitarrone iperdistorte alla My Bloody Valentine, sorrette da ritmiche e impronte new wave che si coniugano alla miglior tradizione italiana, con il timbro vocale del cantante Dario Torre molto vicino a quello di Giovanni Lindo Ferretti. Gemini approda in Italia dopo essere uscito per l'etichetta spagnola Siete Señoritas Gritando. Una piena maturità artistica a cui i quattro napoletani giungono dopo lunghi tour in Italia e all'estero. Una band molto apprezzata in Spagna, cosa molto rara e da non sottovalutare per un gruppo che canta in italiano. Le nove tracce di Gemini sono un viaggio sonico, senza un momento di decadimento, coinvolgente sin dal primo ascolto e che porta, in modo inesorabile, a premere ripetutamente il tasto play. I richiami sono quelli alla miglior tradizione di fine anni '80, quando lo shoegaze non ancora veniva contaminato dalla sperimentazione, dal post-rock, mantenendo sempre una componente melodica di trasporto immediato. E' un inizio al cardiopalma quello di “Shohet” (il sacrificatore che, secondo i riti della religione ebraica, ha il compito di uccidere gli animali secondo i canoni rituali) diretto, d'impatto che ti giunge dritto in faccia, con muri di distorsioni, ora fragorosi ora liquidi che ti assorbono come una nebulosa, a creare una trama di suoni intensi. “Gli Eterni” è il primo video realizzato dalla band. Un brano magnetico con ritmiche potenti.
La successiva “Mira” parte con un basso roboante. Ad aleggiare un mood oscuro degno delle migliori atmosfere new wave, con intermezzi vicini agli americani Interpol. Ma è sull'esplosione maestosa del finale che veniamo travolti, con la testa che si scuote a tempo, le parole marchiate a fuoco nella mente “Sai che vorrei chiarire un'istante/non so più quanto tempo basti ancora per me/ogni risposta sembra avere uno spazio per sè...” La cura testuale degli Stella Diana è un altro elemento di grande importanza e a cui porre attenzione. Liriche mai banali che narrano principalmente d'amore (eh già) ma non solo, con un linguaggio poetico ma sempre molto vicino a noi, privo di pretestuose terminologie, sempre aperto e sincero. Un modo di spingere le parole, dando loro una certa enfasi particolare molto simile alla tecnica di Cristiano Godano, che si fa sempre servo della costruzione melodica della traccia. In “Kingdom Hospital” sembra quasi di udire una versione dei CCCP, attuale e rivista in funzione del proprio stile di estimatori di pedaliere. Uno dei brani nei quali emerge maggiormente la wave e venato da un senso di schizofrenia di fondo. “Non è divertente notare che saremmo migliori in ogni contesa/inerme la gente si sforza di limitarsi a dovere mentre decide...” L'evocativa e rilassata “Caulfield” nel ritornello ricorda vagamente gli Intercity, una delle tante band sottovalutate e misconosciute del nostro panorama. “Paul Breitnar” (che a qualche fissato del calcio anni '70 ricorderà qualcosa) col suo pop-rock cerca di velare le tensioni sonore e le onnipresenti distorsioni sempre sul limite del Larsen e che zampillano fuori come scintille da un cavo reciso, mentre delle ottime linee di basso assorbono e fanno da architettura al tutto. L'apertura e il ritmo spezzato di “Ra” ricorda molto i Kings of Leon di Because of the Times e gode di uno dei testi più belli dell'album (“ In ogni luogo il tuo bisogno mi divora/è strano a dirsi ma non ti consola il vuoto/ti conviene servirmi in questo mio sfogo da preda/seguo l'istante di ogni intenzione guardo il tuo volto bianco di pena...”) e col suo intermezzo e crescendo strumentale si afferma come uno dei momenti più memorabili e coinvolgenti assieme a “Mira”. “Happy Song” è a conferma del titolo la traccia più pop e orecchiabile. In chiusura in “Bill Carson” (il nome sulla tomba vuota de Il buono, il brutto e il cattivo) si scivola verso sonorità liquide e riflessive, mostrando il talento della band nell'allentare la tensione e cimentarsi col dream pop. Gli Stella Diana sono uno di quei gruppi che a coloro a cui piacciono le manopole delle pedaliere girate tutte sulla destra, riserveranno veri momenti di gioia ed emozione. Gemini è un disco che mostra una band dall'impeccabile capacità tecnica messa al servizio di un genere tanto bello quanto difficile. Gli Stella Diana pur assemblando nella loro personalità, mai così emergente e rappresentativa, sonorità passate e presenti, portano una ventata di freschezza ad un genere ed appaiono come la visione di un oasi al viaggiatore perso in un arido deserto nel quale si guarda sempre più avanti e meno ai propri piedi. Un disco e un gruppo, gli Stella Diana, per tutte le età, apprezzabile sia dal ragazzino che dall'adulto in cerca di cose ricercate e di qualità, perchè in fondo come dicono anche loro “E' la tua voglia che onora la tua età”
Label: Happy/Mopy Records
Voto: ◆◆◆◆◆
Flogging Molly - Speed of Darkness (Recensione)
Spread Your Legs - Hooray (Recensione)
Ascoltare un nuovo album non è un'operazione semplice e scontata, richiede al contrario più sforzo di quanto realmente possa sembrare; si tende ad assumere un atteggiamento quasi diffidente, vuoi un po' per paura di rimanerci delusi, un po' perché spesso si preferisce un lavoro il cui ascolto è già consolidato da tempo. Quando però si riesce a superare questo momento, cioè quando finalmente si è pronti all'ascolto, sostanzialmente ci si trova immersi in stati d'animo che possono essere completamente gli uni opposti agli altri. ''Odi et Amo'' avrebbe detto Catullo.
Certo è vero che delle volte si ha come la sensazione di non poter mai arrivare a conoscerlo abbastanza. Si diffondono emozioni istantanee molte volte sbagliate. Ci sono album per i quali non basta nemmeno una vita, altri che ti deludono non appena inseriti nel lettore cd e altri che al contrario ti prendono sin da subito e che prepotentemente ti obbligano a cliccare nuovamente il tasto play. Quest'ultimo è il caso di ''Hooray'', nuovo lavoro dei salentini Spread Your Legs. I ragazzi sono riusciti a staccarsi da un sound tipicamente nostrano per esplorare posti d'avanguardia, guardando con ammirazione all'Inghilterra e alla sua dimensione musicale(So far, so good). Non si può non subire la fascinazione di dieci pezzi animati da infestazioni ritmiche sincopate, bei groove e toni new wave a tratti psichedelici accompagnati da chitarre a effetto profusione. Il risultato è un disco dinamico, solare, perché no accattivante come se ne sentono raramente. Un album rigoglioso dal punto di vista compositivo e melodico, prodotto per Lobello Record, ''Hooray'' è un lavoro che non delude le aspettative di chi ormai lo stava aspettando da tanto. Una grandiosa linea melodica regge l'album, che eseguito live, dà grandi soddisfazioni. Un viaggio tra i meandri del suono che giunge a compimento mediante il fantastico intreccio dei groove di batteria e delle melodie delle chitarre. Gli Spread Your Legs non sono altro che la dimostrazione che la musica italiana (pugliese, qui per l'esattezza) continua a produrre e ad evolversi. Un crescendo di energia inarrestabile che inesorabilmente ti coinvolge in un innesto fortuito di emozioni sonore, quasi a renderti parte del progetto stesso. C'è talento e c'è soprattutto tanta voglia di divertirsi facendo musica. Un ottimo ritorno per una band che può inserirsi a pieno titolo nello scenario musicale italiano. Sgranchite le gambe e preparatevi a saltellare! Hooray guys!
Label: Lobello records
Voto: ◆◆◆◆◇
giovedì 26 maggio 2011
Manetti! - S.t. (Recensione)
Manetti!: da notare il punto esclamativo alla fine che pare ci tengano, anche perchè potrebbe esprimere appieno come vi sentirete dopo aver ascoltato questo disco.
I Manetti! vengono dal lago di Como ed appaiono come un enorme recipiente di idee e stili riversati in modo spontaneo e fulminante in musica. Dopo l'esordio per Subcasotto del 2007, otto tracce per lo più strumentali che si stanziavano sull'ormai inflazionato filone del post-rock, decidono di svoltare e fare le cose per bene. Per questo vengono notati da Barnaba Ponchielli che li adotta nella sua Sangue Disken. Il risultato sono questi undici brani, frutto di passioni e ascolti maturati dalla band nella loro crescita, che ha portato i tre lombardi, Andrea (voce-chitarra) , Simon Pietro (chitarra) e Claudio (batteria), a trovare definitivamente la propria strada e il loro personale approccio alla musica. I Manetti! compiono la grande impresa di riuscire a riversare nei loro brani tutte quelle sonorità degli anni passati (sopratutto i nineties), spesso citandole anche nei titoli dei brani o nei testi, riuscendo a farle proprie, reinventandole in modo particolareggiato e distintivo. L'idea che danno i Manetti! è quella di tre ragazzi che prendono gli strumenti in mano e senza pensarci neanche un minuto si danno ad una jam forsennata, le canzoni già in testa e nasce il disco. Non che questa idea sia sinonimo di scarsa qualità o poca ricercatezza, anzi è fonte di plauso e pregio della band l'apparire sempre spontanea e totalmente sincera nel proporci la loro musica. Il basso nel disco è suonato da Enrico Molteni dei T.A.R.M. che nel primo disco neanche lo avevano il basso. I Manetti! dicono che questa loro prova è dettata dall'esigenza di descrivere l'esistenza del singolo annoiato di qualsiasi città, come fosse protagonista di un film irripetibile e unico chiamato vita. Chiaramente non lo dicono in modo così smielato, però sento di condividere pienamente questo concetto. C'è un forte contrasto tra l'allegria e la voglia di divertirsi dei Manetti! e le sensazioni notturne, sempre velate d'amarezza e oscurità, dell'intero disco. Non so se sia romanticismo, emotività o altro ma sicuramente siamo davanti ad una band con una forte componente empatica che personalmente merita e ha tutte le carte in regola per far parlare molto di sé in futuro. Mi ero scordato di dire che in questo disco i Manetti! cantano e lo fanno in inglese. La prima canzone si chiama come il famoso romanzo di Irvine Welsh da cui è stato tratto il film di Danny Boyle. “Trainspotting” apre in modo malinconico ma energico l'album. Punto di forza le texture armoniche delle chitarre dissonanti e un ritornello micidialmente efficace. Segue il singolo, fin dal titolo permeato da quel citazionismo pop del quale parlavo precedentemente, “You and I and The Screaming Trees”. Un brano morbido, emotivo, che mostra un lato delicato della band, suscitando sensazioni da collage rock. “Rock'n Roll Nite” è un' altra canzone azzeccatissima che già dal primo ascolto prende stanza nella nostra testa e si pone come una via di mezzo di certo alternative rock americano di fine anni '80 e i Cure di Robert Smith. Con “A.M. Summer Trio” sembra di incamminarsi per strade buie, in notti senza luna, le quali uniche luci appaiono quelle dei lampioni che contornano la via. Un andamento cantilenante e sonnabolico che affoga sul finale in rumorismi e voci spettrali. “Surfers” è la prima traccia strumentale di questo disco, caratterizzata da chitarre sbilenche e arpeggi alla Slint. Segue “Hey! Henry Winkler” un tappeto new wave sui quali si dispongono composti e ripetitivi i soliti arpeggi e un cantato mantrico. “John Play Special” è la seconda traccia strumentale, una marcia incorniciata da chitarre mariachi e un'ottima sezione ritmica a fare da perfetto collante. Nel primo disco vi era una bellissima canzone. Si chiamava “Giardini”. E ora la ritroviamo con il nome di “Giardini is Back”. Probabilmente il momento più alto, per quanto riguarda la sfera emozionale, dell'intero album. Una traccia slow core che lascia trapelare a più riprese attimi di silenzio catartico, in quella che è una ballad greve ed intensa che mira fin dall'inizio alla crescita strumentale, nello giungere ad un esplosione annunciata e mai avvenuta che ci lascia soli in compagnia di noi stessi. “Grunge is Dead” è sicuramente la più straniante, giocata su sensazioni e sonorità contrastanti. Dal funky al noise passando per echi e vortici chitarristici e un ottimo basso distorto che ben ne delinea le dinamiche. “Dark!” tiene testa alle aspettative del titolo ed è la traccia più ferale e buia dell'album. Un inno alla notte “tonight...tonight” come dicevano anche gli Smashing Pumpkins ma qui siamo in vena d' ispirazione post rock seppur catalogare i Manetti! porta sempre un enorme sforzo più per la limitazione che si va ad imporre che per l'ardire. Chiude “Loopstation”, anch'essa strumentale e giocata sulla reiterazione di un unico riff di chitarra, appunto, in loop.
I Manetti! non hanno la pretesa di portare alcuna rivoluzione sostanziale. Suonano per sé stessi e hanno le canzoni, quelle con la “C” maiuscola. Un disco di undici brani che ti scivola addosso, restandoti contemporaneamente attaccato, è una cosa ben rara e difficile da realizzare. Manetti! è una delle cose più belle e interessanti ascoltate ultimamente, riassunto di musicalità “giuste”, di cui è difficile non andar matti. Una passione smisurata, istintiva e carnale che rende questo (ri)esordio qualcosa di davvero notevole e che spero possa incontrare l'appoggio e il piacere di un vasto pubblico.
Label: Sangue Disken
Voto:◆◆◆◆◆mercoledì 25 maggio 2011
Panda Kid - Panda Kid meet No Monster Club (Recensione)
Onde da surfare, vecchie Cadillac, ancor più vecchie Fender Mustang.. tutto questo balena nella mia mente mentre ascolto quanto esce dalla cameretta di Panda Kid per andare a finire nel mio stereo sotto forma di split-album, tra appunto il nostro italianissimo Panda Kid, e gli irlandesi No Monster Club. Panda Kid è una delle tante e classiche next-big-thing indie-rock del panorama italico, e non, tanto care alla stampa specializzata, che ogni giorno ci vengono proposte e gettate davanti. Finalmente però ci troviamo davanti a qualcosa di molto interessante. Il ragazzo ha la stoffa. Questo split mi rimanda alla mente l'epoca dell'autoproduzione DIY, caratterizzata da suoni di merda figli delle registrazioni economiche o fatte in cameretta, ma carice di passione, significato e perchè no.. talento. A far compagnia al già descritto Panda troviamo poi gli ottimi No monster club, band irlandese con all'attivo già 3 album, capitanata dal carismatico Bobby Aherne, che sta spopolando in patria e che arriva in Italia in tour per promuovere questo nuovo lavoro. Allo stesso modo Panda Kid dopo il primo lavoro, uscito per i ragazzi della MiaCameretta Records, prova con questo split a cercare fortuna anche nelle terre straniere. Il genere è sempre lo stesso per entrambe le 'formazioni', un surf rock sporcato da un po' di noise, il tutto condito da una sana attitudine punk.. Thurston Moore e Dee Dee Ramone a braccetto con uno strafattissimo Brian Wilson. Batterie minimali degne del buon spazzacamino di Mary Poppins alle prese con l'elemosina, chitarrine dritte condite dalle modulazioni classiche del genere, chorus, flanger, ed un bel po' di riverbero, che la fa da padrone anche sulle voci, scazzate e stonate, che sovrastano gli arrangiamenti caciaroni e in bassa fedeltà ( ma attenzione non per questo non curati) che ci fanno amare con tanta felicità questo dischetto e attendere con ansia il primo full-lenght di Panda Kind in uscita in Agosto.
Label: MiaCameretta/Youth Tramp
Voto: ◆◆◆◆◇
Atome Primitif - Three Years Three Days (Recensione)
martedì 24 maggio 2011
The prodigy - World's on fire (Recensione)
E' uscito fuori un po a sorpresa, senza troppi preavvisi, e non è una cosa particolarmente avvezza ai tre dell'Essex, i Prodigy, da non confondere con l'hip hop dei Prodigy of Mobb Deep, che ormai si sa, si specifica sempre, ma lo sanno tutti. Questo è il primo disco live della band e fotografa benissimo la situazione attuale dell'mc Maxim Reality, il tuttofare Liam Howlett e le vocals di mr Keith Flint, forse il personaggio più noto ma il meno interessante dei tre. Ogni nuova uscita porta sempre qualcosa di nuovo nel sound del collettivo ed effettivamente questo disco mi ha un po spiazzato da questo punto di vista...mi è sembrato di ascoltare una collezione di pezzi sentiti milioni di volte (in quanto specifico che sono il mio gruppo preferito, ma cercherò di non essere troppo di parte), alcuni dei quali sono stati rivisitati live in versione maggiormente rock 'n roll oriented. Ora, si tratta di un live album registrato abbastanza bene durante il World's on fire world tour e presenta 17 pezzi che sono un po pochini, ma di fatto sono quelli maggiormente proposti dalla band oggi. L'unico difetto che ho sempre trovato non solo nelle produzioni di questo tipo ma nei Prodigy in particolar modo è che dal momento in cui si sono maggiormente avvicinati ad una etica stilistico-compositiva al rock, cioè sin da Their law, ma in modo particolare da TFOTL (acronimo di The fat of the land) hanno iniziato, e questo secondo il mio gusto costituisce un piccolo sbaglio, a reinventare le loro vecchie tracce di stampo early rave in chiave rock, alle volte riuscendoci maggiormente, ma spesso andando a snaturare la bellezza del pezzo originale, rendendo talvolta i pezzi delle sorte di remix on stage discutibili. La cosa si può trovare anche in questa sede, ed appunto non si tratta di una novità. I Prodigy fanno parte di quei gruppi che, al contrario di coloro i quali eseguono i pezzi così come sono su disco, li modificano sempre e non in modo velato. Questo costituisce un punto di forza e allo stesso tempo un punto di debolezza, che comunque esiste, specifico, solo su live. La loro grandezza è sempre stata quella di riuscire a realizzare sempre e comunque prodotti innovativi, che non sono mai stati la successione dei precedenti, ma qualcosa di completamente nuovo, salvo però, on stage, modificare i precedenti lavori secondo le attuali cifre stilistiche applicate. Premettendo che questa è in fondo una compilation, possiamo trovare il lato pratico di questo discorso in particolar modo in quei pezzi che o appartengono al periodo Experience - MFTJG (Music for the jilted generation), oppure che pur attuali hanno delle sonorità maggiormente tendenti alla old school, mentre i pezzi che hanno una attitudine più rock vengono ulteriormente valorizzati dall'utilizzo di una strumentazione sempre più orientata in quella direzione. Alcuni chiari esempi del primo tipo sono per il passato "Weather experience", "Out of space" e "Voodoo people", così come anche "Thunder" e "Colours" (i casi più emblematici di pezzi recenti nati early e resi rock), al contrario i classicissimi "Smack...", "Breathe", "Invaders must die", "Firestarter", "Their law" etc... esprimono la nostra seconda categorizzazione. E' inutile dire che mancano tantissimi classici che oramai non sono più fortemente valorizzati dalla band, ma mancano, e questo è un gusto personale, stranamente dei grandissimi pezzi tratti dall'ottimo AONO (Always outnumbered, never outgunned) che però alla band dell'Essex non sembra proprio piacere live, sarà perchè all'epoca lo fece unicamente Liam, non per essere suonato live ma per sperimentare. Mancano inoltre decine di altri pezzi clamorosi che, e questa è una colpa, sarebbero potuti essere inseriti in un doppio cd. Non faccio particolari nomi, ma basta conoscere abbastanza bene la discografia dei nostri per rendersene conto. Un disco da avere per i collezionisti dei Prodigy, ma che al neofita potrà interessare molto meno rispetto agli originali o a quella raccolta di qualche anno fa, "Their law", che ancora oggi considero la più completa sotto tutti i punti di vista. Comunque, da avere nella propria Prodigy-collection.
Label : Take me to the hospital
Voto: ◆◆◆◆◆
Nico Greco & His Band - Blue Like Santa Cruz (recensione)
lunedì 23 maggio 2011
Arctic Monkeys - Suck It and See (Recensione)
Matt Helders : "Suck it and see" è "più pop" rispetto ad "Humbug". Così rilasciò Matt Helders batterista degli Arctic Monkeys scaturendo le mie più recondite fantasie a riguardo. Se “Humbug” fu' la prova di maturità di una delle band più sconvolgenti del panorama british indie/rock, "Suck it and see" va ad accodarsi a le molteplici delusioni di questi ultimi tempi, vedi : Noah And The Whale - Last Night On Earth (2011), The Pains of Being Pure at Heart - Belong (2011), Hey Rosetta! - Seeds (2011) e per non scatenare una guerra è meglio fermarsi qui. Una delusione intuita dalla prova “Solista” del leader Alex Turner con “Submarine” (colonna sonora del film “Submarine”), sicuramente un'ottima prova di variazione artistica e inventività, ma ebbi il timore che si lasciasse attrarre dal nuovo sound (melodico) e così facendo trasmetterlo in futuro ulteriormente negli Arcitc Monkeys . I miei timori erano fondati! "Suck it and see" è un album vuoto e senz'anima , il classico album a scopo di lucro, danneggiando un nome fin'ora intoccabile.
L'album è composto da dodici tracce, ed apre con l'arpeggio di “She's Thunderstorms” (non pensateci, “Brainstorm” è solo un lontano ricordo) ma nonostante ciò, il brano è uno dei pochi in grado di arrivare alla sufficienza, ma rende subito chiara la strada noiosa e poco energica dell'album. Il singolo e video “Brick By Brick” sembra un misto tra gli avanzi dei “Franz Ferdinand” e quelli dei “Death Cab For Cutie”, restando in tema di scarti “Don't Sit Down 'Cause I've Moved Your Chair” sembra venire dal cestino della spazzatura del fantastico "Humbug". Bisogna attendere metà album per gli unici due brani davvero Arctic Monkeys, “Library Pictures” e “All My Own Stunts” dove la batteria di Matt Helders domina e rimette tutti in riga. “Forse la prima metà dell'album è una sorta di scherzetto non divertente, e da ora in poi tornano ad essere i veri Arctic? Pensai tra me e me!” Invece fu' una pura e spietata illusione, servita solo per alimentare la mia delusione verso un album contenente 6 minuti scarsi di buona musica.
La batteria sovrastante, presuntuosa ed arrogante a cui eravamo abituati muore in questo album, e viene sostituita da una semplice e noiosa porta tempo in pensione. Non si hanno più tracce della voce di Alex dispersa negli abissi soffocati di “Submarine”.
Due fiamme incendiarie ridotte ora in fiammiferi troppo deboli per una sigaretta.
Label: Domino
Voto: ◆◆◇◇◇
sabato 21 maggio 2011
Luminal - Io Non Credo (Recensione)
Lo Stato Sociale - Amore ai tempi dell'ikea (Recensione)
Voto: ◆◆◆◆◇
venerdì 20 maggio 2011
Danger Mouse & Daniele Luppi - Rome (Recensione)
Label: Capitol
Voto: ◆◆◆◆◇
E per finire gustatevi il video interattivo realizzato da Chris Milk in collaborazione con i Google Creative Labs qui.
Vinicio Capossela - Marinai, profeti e balene (Recensione)
Appunto la sua saggezza in "Marinai, profeti e balene" ha raggiunto livelli elevatissimi, cosa che mi ha disarmato. Non ho trovato il coraggio di scrivere nulla fin'ora, perché non mi sono sentito all'altezza di poter descrivere un opera così completa e perfetta. A differenza dell'Ep "La nave sta arrivando", uscito pochi mesi prima di questo album, le uniche cose che mi sento di dire, nell'ascoltare per la prima volta questo concept album è che ho provato senzazioni quali: solitudine, estasi, chiarore, tepore, conforto, timore, smarrimento, tenerezza. Tutte cose che difficilmente si sentono tutte insieme. Capossela è riuscito a pubblicare un opera mastodontica, due dischi impegnativi. Per comprendere a pieno questo album c'è bisogno di una buona preparazione, per questo chi ama il Capossela de "Il Ballo di San Vito" rimarrà deluso, chi non conosce Capossela forse avrà grandi difficoltà, ma rimane che questo album consacra definitivamente Vinicio Capossela come uno degli artisti-compositori più importanti della musica italiana di sempre.
Come ho già detto per ascoltare "Marinai, profeti e Balene" ci vuole della preparazione, perché come in una buona opera teatrale, troviamo molte inspirazioni e riferimenti letterari come: "Moby Dick", "Scandalo negli abissi", "Billy in the darbies" e "Libro di Job". Per comprendere quest'opera e parlarne approfonditamente bisogna temporeggiare, ed io non mi sento di poter avanzare adesso delle considerazioni sui contenuti testuali, ma quello che posso dire è che mi ha destato tanta curiosità, quindi l'intento non facile di Capossela di partorire un opera così complessa ha portato i suoi frutti sin da subito, proprio in un momento dove non è facile vendere arte "profonda", ma Capossela con questa impresa titanica si dimostra un gran traghettatore, controcorrente; come fosse un'ancora di salvezza a cui aggrapparsi.
Label: La Cupa/Warner
Voto: ◆◆◆◆◆+
mercoledì 18 maggio 2011
Playontape - A place to hide (Recensione)
Label: La Rivolta Records
Voto: ◆◆◆◆◇