venerdì 31 maggio 2013

The Incredulous Eyes – Here’s The Tempo (Recensione)

State cercando per caso un pizzico di arte cinetica su un corpo rock dalle mille tentacolarità e magari con intuizioni a zuppo negli anni Sessanta, Settanta o giù di lì, in poche parole volete essere assaliti una volta tanto da vertigini psicotrope e starvene per un pugno di minuti a galleggiare o boccheggiare a seconda dei casi o di come vi prende? Ben arrivati nei contorsionismi elettrici dei The Incredulous Eyes, band abruzzese che con “Here’s The Tempo” rappresenta i multipli sonici del rock e rinvia indietro i giochi formali di certe estetiche, un disco di dodici tracce che pulsa, lampeggia, batte e vibra per tutta la durata della sua bella fuga.

Disco di svariati layout sonori, una percezione benemeritamente disturbata con i sensi elettrici attratti verso l’infinito, rock, folky “Dream On”, sperimentazioni progressive, scatti, tumulti distorti, ZappaI Saw My Hero”, “OddityCaptain Beefheart e linguaggi Hendrixiani “The Fisherman”, “Not Moving” che si rincorrono e mantengono un ritmo quasi astratto se non fosse per la reale forza che ti arriva attraverso i woofer in perenne eccitazione membranica, dodici chiavi di lettura che stordiscono in un piacere da percorrere da cima a fondo; una tracklist in forte movimento, ovunque e sempre, fuori o dentro contesti che potrebbero anche sembrare allusivi o quantomeno dispersivi, ma è qui che il significato “perdere orientamento” assume i suoi toni specifici e tutta la sua travolgente bellezza, galleggiare e ancora galleggiare in un limbo di estetiche e tonalità psicotrope per imbellettare cuore e anima.


La formazione non ha un percorso cronologico nelle loro stesure, occupa uno e più spazi in cui colloca la sua propulsione a sbalordire, trasforma i minuti di ascolto in veri e propri viaggi a zig zag come in un balance impazzito, stati agitati e calme sulfuree si alternano senza mai creare un vuoto o un minimalismo strutturale, il tempo da loro dipinto è straniante, una corsa immaginaria che da forma e corpo a pads notevoli come la carica bluesy che urla in “Fragile Present”, tra le nebbie liquide e nicotiniche di “The Edge Of The Shore” fino all’approccio notturno e formidabile della pensante “Still Dreaming”, pianoforte e poesia in solitaria da pelle d’oca.

Un disco da luci al neon e bottiglie scolate, un mettersi all’ingiù e sbirciare le forme attrattive di una band come poche in giro.


Voto: ◆◆◆
Label: Furt Core Records 


giovedì 30 maggio 2013

Teho Teardo – Blixa Bargeld – Still Smiling (Recensione)

La maestria di Teardo quale artefice di colonne sonore riesce a sovrapporre anche a questo lavoro, non concepito come sostrato sonoro di immagini, suggestioni visive riesumate tra le curve del cervello. Come in una pellicola espressionista, è la linearità delle forme a definire la bizzarria minacciosa tanto degli elementi naturali quanto dei prodotti dell’ingegno umano. Le claustrofobiche stanze sbilenche di Rob Wiene potrebbero essere spontaneamente infestate dall’eco avvolgente della voce di Blixa Bargeld, mentre i carpacci slovacchi di Murnau propagano il rintocco dei sibili post-industriali di Teardo.
Il Grand Tour di Bargeld, algido esponente di un’aristocrazia spirituale della Mitteleuropa al suo crepuscolo, muove dall’insinuante confessione di insufficienza linguistica di "Mi Scusi": il fascino straniante dell’italiano incerto offre l’occasione per una beffarda dichiarazione di minorità espressiva, attribuita argutamente anche agli studi scolastici del latino a un livello cavernicolo.
Teardo colloca la vocalità del teutonico in uno spazio scenico strutturato tra palpitazioni ovattate, crepitii e gemiti d’archi; la teatralità del cabaret decadente si arricchisce di arpeggi e accordi aperti nel collage multilinguistico di "Come Up And See Me", per poi deformarsi nel grottesco richiamo di spelonca di Axolotl.
L’acuminato infiltrarsi della lingua tedesca serpeggia su archi sotterranei in Buntmetalldiebe, ma si ammansisce nell’inglese della title track e in quell’incantesimo imbevuto ancora di oscurità germanica che è "Nocturnalie". Dopo il crooning convenzionalmente romantico di "Alone With The Moon", in "What If…?" l’italiano alieno introduce un blues postmoderno infestato di decadenza continentale. Konjunktiv II svela giacimenti metalliferi dimenticati, minacciosamente scintillanti nell’oscurità di "Nur Zur Erinnerung"; il connubio tra gli archi filmici e la sommessa declamazione di Bargeld in "A Quiet Life" prelude all’acquoso fluttuare di "Defenestrazioni", in cui la preminenza dell’elemento linguistico acquisisce indiscussa evidenza.

Il miracolo della polilalia eccezionalmente compiuto in questa Pentecoste laica svela la potenza intrinseca del linguaggio, e al tempo stesso assimila l’atto dell’espressione verbale alla qualità organica del suono; la riuscita dell’evento mirabile è tutta da ascrivere all’unicità singolare delle individualità messe in gioco.

Voto: ◆◆◆
Label: Specula Records

martedì 28 maggio 2013

Cold War Kids – Dear Miss Lonelyhearts (Recensione)

E viva la faccia dell’indie yankee, come se non bastassero le buone scorribande radiofoniche di certi puntigli made in Strokes, arriva sulla linea di partenza di una sana competizione virtuale – ma non solo - il nuovo disco dei quattro di Duluth in Minnesota, i quattro e baldi giovanotti dei Cold War Kids, la band ipercitata in tutti i palinsesti tunes d’America che con questo bel ammasso di indie-pop titolato “Dear Miss Lonelyhearts”, e con il contributo della stupenda voce aliena – per il genere – di Nathan Willet, portano le atmosfere e le prove di un amore spassionato per tutto quello che è “camp” , per tutto quello che potrebbe andare ad intaccare vecchie vetrofanie di settore che ancora nascondono età inconfessabili.

Un pianoforte come punto d’appoggio centrale, un sinth che viene maneggiato senza risparmio, ballate piene, elettricità sparse ovunque e fantasmini di Kings Of Leon e qualcosa dei Killers sono la parte importante della mercanzia sonora che il quartetto americano mette in mostra e negli orecchi, ed e proprio qui che il fattore “intrigante” prende le sue sembianze complete, la splendida maturità che la formazione da in pasto a tutti, un disco che è un’espansione verso certi lidi soul blues “Tuxedos”, la titletrack, “Bottled Affections” fino a bucare il syussulto funk con le mosse robotiche di “Loner Phase”; non stiamo a parlare di una ammirevole professione di umiltà, loro – i CWK – non lavorano intendiamoci solo sulla spontaneità dell’ispirazione, ma più che altro per una versatilità reversibile – passateci il contrasto - che è in fondo spettro sonoro di una estetica “libertaria” che volendo o dolendo da i suoi frutti, e anche copiosi.


Non ci sono quelle radicali rivoluzioni Copernichiane tra i suoni o i testi, ma un lotto che si ascolta con decisone, specialmente quando scorre la voce diafana e leggermente glammy che riga “Water & Power” e quella sensazione epidermica di Eurythmics che viene spalancata dal passo marziale e stupendo di “Bitter Poem”, per farla corta una tracklist che tiene molto bene a bada la noia senza troppa fatica.


Quando l’indie-pop è piacere e non una forzatura.


Voto: ◆◆◆

Label: Downtown Records

lunedì 27 maggio 2013

Luminal - Amatoriale Italia (Recensione)

L'Italia, l'Italietta e l'Italiona pronta alla morte è oggi agonizzante tra le cosce di showgirls ("Donne Du Du Du"), scandali, cronaca nera e reality. Pattume e piattume, precariato e schiavitù ("Il Lavoro Rende Schiavi"), cupidigia ed estenuante ricerca di affermazione personale in una scalata sociale che riflette un Paese in moto da tempo su una sorta di tapirulan storico, bloccato e irrimediabilmente sconfitto da una malsana accidia.

Un affresco allucinato e satirico, Amatoriale Italia, la terza prova del trio capitolino Luminal che non manca di azzannare anche la scena indiepeRdente spastica e autoreferenziale di cui sono parte integrante ("C'è Vita Oltre Rockit"). E così hipsteria e indie-pendenza diventano forme di dipendenza, stanche e di routine, con perfetti cosplayer alla ricerca di evasione sociale ma in perenne ansia d'esclusione da parte degli autoesclusi ("Carlo vs. il giovane Hipster"). Il messaggio, spesso veicolato attraverso una sana e cinica visione grottesca  ("Grande Madre Russia") e degenere ("Blues del Maniaco su Facebook") delle cose, vuol essere necessariamente ironico e crudo ricordandoci, anche senza parafrasare i Laghetto ("Canzone per Antonio Masa" estrapolata dal tributo di Impatto Sonoro), che la gente è sempre in cerca e preda di qualcuno che la prenda per il culo e che per nessuna cosa abbiamo così poco talento come per noi stessi.

L'accessibile forma canzone, dallo squisito retrogusto pop ma diffusa attraverso quel post-punk intellettualoide e ricercato alla quale i Luminal ci avevano dalla loro nascita abituati, scompare, così come anche la poesia di fondo dai toni arrendevoli ma speranzosi che aveva dato voce ad "Io Non Credo" nel 150simo anniversario dell'Unità nazionale.
La formazione cambia, (alla base sempre Carlo Martinelli e Alessandra Perna) e si riassetta in modo minimale ed esplosivo: basso, batteria (Alessandro Commisso), e armoniche sotto liriche caustiche e, ahimè, quanto mai veritiere ed empatiche perchè "le parole sono importanti" e, forse, anche l'unico vero motivo fondante di questo Amatoriale Italia.

La nostra società appare così inquadrata in una sorta di ottica Palahniuk-iana che auspica autodistruzione anzichè automiglioramento, dove tutto va perfettamente male e ce ne compiacciamo perchè inermi ed inetti. Scavando a fondo, però non evitiamo di scorgere ugualmente del perverso romanticismo e attaccamento al proprio ecosistema che fa di noi degli ideali esteti della perdizione, affascinati e sottomessi dal più buio nichilismo.

Il Paese è (ir)reale.

Siam pronti alla morte l'Italia chiavò.

Voto Hater: 
Voto Indieminchia: ◆◆◆◆ punto ◆◆◆
Voto Vero messo (A CASO): ◆◆◆

Label: Le Narcisse

sabato 25 maggio 2013

Nient'Altro Che Macerie - Al Vento (Recensione)

Noi siamo le perturbazioni interiori, i grandi uragani, il dover ricominciare.

Ci viene così bene questa insolita disperazione, ci piace comburere di rabbie, puntando il dito verso la vita stronza sempre sul podio a vincere contro le nostre aspettative deluse; ci piace rimanere al buio, in solitaria, in silenzio e poi uscire fuori per capire se c’è ancora qualcosa per cui valga la pena.

Una volta lì, sulle MACERIE, esposte AL VENTO, ci sediamo e ascoltiamo.

Immaginate uno scenario apocalittico, le fiamme, i palazzi distrutti o che crollano come nel fantastico finale di Fight Club, nebbiosa polvere ad offuscare la vista e, il cielo, imperturbabile, sereno, come se la terra avesse bisogno di fagocitare il suo stesso declino per poi rifiorire.

La colonna sonora è il nuovo lavoro del Nient’Altro Che Macerie, poche storie.

Fondamentalmente ogni disco degno di rispetto, sarà oggetto dello stesso consiglio, quello dell’ascolto in situazioni limite ma comodissime, in cui tutto il resto scompare, affinchè l’analisi dei suoni e delle parole sia possibile. Ma qui, la realtà e la musica coincidono e quello che si immagina ad occhi chiusi mentre la chitarra accompagnata dal basso, disegna in aria spezzate aperte e la batteria porta il tempo nell’atemporale situazione di irrisolutezza, è lo stesso panorama oltre il muro di questi giorni, tutti uguali, con le speranze appassite.

Non importa quanti anni abbiamo, non importa che lavoro faremo, cosa stiamo studiando, chi abbiamo al nostro fianco. Non importa nulla se nulla vale e se nulla è veramente nostro.

Una battaglia musicale contro ciò che fugge, che si disperde; una stanchezza furiosa suonata in sette tracce: è questo AL VENTO, ed arriva ad Aprile 2013 per V4V, l’etichetta nata a poche ore dalla fine del mondo, e per questo a mio parere immortale, date le proposte fighissime di questi ultimi mesi.

Dopo l’EP autoprodotto, Circostanze, che denotava la stessa precarietà per cui nulla è cambiato e tutto è cambiato, Matteo, Simone e Andrea, tornano ad alimentare le centrali eoliche della nostra mente, con raffiche sonore pulite, forti, energiche e graffianti.

"In Silenzio", cercheremo strade immense e arriveremo a capire "Il Senso della Fine" perché siamo nel posto sbagliato, al momento sbagliato; scivoleremo su noi stessi, nonostante i nuovi ideali a cui ci affidiamo senza diventare persone migliori guardando i cambiamenti da "Evitabili Prospettive", premeditando "La Reazione al Nulla, Emesi" di tutto il nero nello stomaco; nulla era speciale se si è perso. Pronunceremo "Le Parole tra i Denti", digrignando l’amore, proteggendolo dalla vergognosa mondanità che ci circonda.
"Quello che Vorrei Davvero Dirti", quello che vorrei davvero dirvi, è tutto qui, in questo disco.
Quello che c’era da dire è stato detto.

Grafica: Legno
Registrato e mixato da Ale Caneva al Modbsound Recording Studios di Milano.
Masterizzato da Alex Balzama allo Swift Mastering di Londra.

Scarica gratuitamente l'album sul sito dell'etichetta a questo link.

Leggi qui l'intervista ai Nient'Altro Che Macerie

Voto: ◆◆◆

Label: V4V Records


venerdì 24 maggio 2013

Gli Sportivi - Crazy Love Collection (Recensione)

Solo l'anno scorso usciva il loro album d'esordio Black Sheep, ma a quanto pare Gli Sportivi hanno idee da vendere ed è con colpevole ritardo che arrivo ora a parlare di questi 5 pezzi rilasciati a San Valentino: una manciata di brani d'amore non convenzionali, dopotutto se si chiama Crazy Love Collection questo ep un motivo ci sarà...

Dove ci eravamo lasciati? L'esordio del duo veneziano (Lorenzo Petri a voce e chitarra e Nicola Zanetti alla batteria) era intriso di rock'n'roll e garage rock, un mix di per sé non originale ma che sprizzava personalità da gran parte degli 8 pezzi che andavano a comporre l'album. Questo ep sposta invece il discorso più verso il blues, e non è un caso che nella seconda traccia “Crazy Hazy Kisses” Lorenzo canti “Baby baby baby I play the blues”. I 5 brani pescano in maniera più netta dalla tradizione, non lesinando sui ghirigori chitarristici che paiono però più fini a sé stessi delle invenzioni spiazzanti di cui era condito l'esordio: soprattutto la già citata “Crazy Hazy Kisses” risente in maniera netta di questo “ritorno al passato”, non distinguendosi particolarmente da migliaia di brani simili suonati fin dalla notte dei tempi. Non che manchi l'energia per carità, a partire dall'iniziale “Boom Boom” per arrivare ad una “I Feel Ok” che è puro fulmicotone per tutti i suoi quasi 3 minuti di durata, e le idee funzionano anche quando si pigia sul tasto di una granitica ripetitività (“Hoogie Boogie”) o ancora meglio sulle influenze di frontiera nella meticcia “Mexicali Baby”: pare però che quelle piccole rifiniture che rendevano colme di personalità le 8 tracce dell'esordio siano qui sostituite da una genuina passione per il blues che scalda sì il cuore ma rende la verve del duo meno riconoscibile.

Un passo indietro dunque questo Crazy Love Collection? Sarebbe un'esagerazione dirlo, forse mezzo va là: sta di fatto che se Black Sheep mi aveva convinto abbastanza da alzare la valutazione di un tot questi 5 pezzi, pur lasciandosi ascoltare molto piacevolmente, non riescono a fare altrettanto. Da qui a dire che la band non meriti comunque la vostra attenzione però ce ne passa eh...

Voto: ◆◆◆◇◇

Label: Flue Records

mercoledì 22 maggio 2013

Daft Punk - Random access memories (Recensione)

Siamo umani, dopotutto. Questo statement racchiudeva in sè quello che sarebbe successo otto anni dopo, ma d’altronde allora nessuno li prese veramente sul serio, e invece è successo: i robot parigini noti come Daft Punk sono diventati esseri umani, sono tornati dal loro pianeta Interstella 5555 e hanno realizzato che, tutto sommato, l’elettronica può venire umanizzata attraverso ritmi caldi ed estremamente catchy, figli di un tempo e di un suono perduto che si pone lì dove tutto è cominciato, nella disco music, quella più ruffiana e per tutti. Questo processo viene espresso in modo particolarmente chiaro attraverso la storia degli incipit dei loro dischi: laddove Homework, figlio di una estetica anni ’90, manifestava sperimentazione, i primi secondi di One more time (Discovery, 2001) lanciavano il sound french touch verso le classifiche mondiali della musica house, quella più raffinata, catchy e anche, come si suol dire oggi per identificare un certo tipo di musica EDM ovvero Electronic Dance Music, che fa tanto figo. Human after all, 2005, partiva con dei rintocchi di drum machine, il che, applicato al titolo dell’album, presentava una denuncia, una accettazione e una riflessione sull’ibridazione delle forme fisiche del rock e elettroniche, un tema caro a molti, moltissimi, ma che rappresentava, musicalmente, una chiara dichiarazione d’intenti. Inutile parlare delle O.S.T. e del resto, che alla fin fine conta poco.

Ora prendete questi tre lavori e metteteli da parte perchè la creatura Daft Punk oggi è qualcosa di nuovo, completamente diverso, che taglia nettamente i ponti con il passato e che fa tabula rasa di tutto quello che Fu il french touch, da loro stessi creato, evoluto e concluso. Cosa è accaduto in questi 8 anni? Tutto e niente. Raccolte, un disco live, Alive, dieci anni dopo lo storico Alive 1997, la firma per la colonna sonora di Tron, a sua volta rifacimento dell’omonimo originale del 1982, molto meno sperimentale del primo ma molto più figo, e poi un suo remix, una sua ricostruzione. Queste release vogliono dire tutto e niente perchè qualcosa di tangibile è stentato ad arrivare. Quel qualcosa è stato anticipato da una grandissima campagna mediatica, di fronte alla quale Trent Reznor potrebbe addirittura impallidire, che ha costruito dibattiti e titoli di Disco dell’anno a qualcosa che non aveva ancora una sua natura, del quale nessuno aveva alcuna idea. Questo hype, questa strategia, si è espressa in maniera completamente differente rispetto ai loro lavori passati in quanto mossa da scopi differenti. I Fu Daft Punk erano caratterizzati da un grande rifiuto della ricerca della forma popolare e in generale hanno sempre dato l’impressione di vivere su quel loro pianeta che gli ha dato tanto successo. I loro concerti, le loro interviste, la loro presentazione dietro delle maschere, le stesse copertine degli album (sempre incentrate semplicemente sul loro logo) hanno alimentato nei fan un modo di vedere questa realtà così amena dal mondo elettronico e dalle sue tendenze, una realtà allo stesso tempo così vicina e così lontana dagli sviluppi della musica. Questo è, in breve, il Fu. Qualche giorno fa (ho perso il conto, sembra ormai di conoscere l’album da una vita) è uscita la notizia che il disco è stato pubblicato gratuitamente per qualche giorno, poichè la data di uscita è il 21 maggio del mese corrente, e lì molti di noi, fan del duo, hanno schiacciato play. Per quanto il singolo Get lucky, con la partecipazione di Pharrell, abbia proposto un suono molto diverso dal solito, molto disco, legato a una personalità come Giorgio Moroder, ma non solo, credo che non tutti si aspettassero che Give life back to music fosse, ancor prima che musicalmente, la soluzione dell’enigma della sfinge di Human after all, perchè il passaggio dall’album precedente a quello attuale è ancor più estremizzato di quello intercorso, non a caso, nei francesi Justice da Cross a Audio video disco. Il fine ultimo di questo disco è quello di riportare la musica elettronica alla vita, a quella indubbia fisicità che ancora viveva all’interno dell’epoca della disco, in quel periodo di transizione verso tutto quello che verrà in seguito.

L’opener, così spiazzante, dopo un brevissimo motivo, quasi come se fosse una colonna sonora, lascia il posto ad un sound completamente inesplorato dal duo e completamente differente da tutto quello che è stato composto da loro fino a quel momento. Gli elementi principali che accompagneranno i tredici brani e che trovano nell’opener una delle loro summae sono un impianto disco, una voce vocoderizzata (ma completamente diversa rispetto al passato) e, in generale, un suono soft e dolce, che più volte strizza l’0cchio al mainstream e che smussa via tutte le asperità che possono essere di difficile comprensione per garantire all’ascoltatore esteticamente la migliore frutta possibile. Andando avanti con i brani ci si rende ben presto conto che questo album, che taglia i ponti con la musica elettronica, è basato, per la sua maggior parte, sugli ospiti che lo abitano, ospiti di grandissimo rilievo nel panorama della musica moderna (e non). Cosa dire al proposito della partecipazione di Nile Rodgers degli Chic, storica formazione disco, o del Maestro del genere Giorgio Moroder, nonchè di Julian Casablancas dei The strokes, del sopra citato Pharrell Williams, di Todd Edwards, di Panda Bear (degli Animal collective) e di Dj Falcon? Un cast d’eccezzione per un film d’eccezzione. Nell’idea del duo c’è il recupero di certe sonorità come antidoto all’imperante dominio delle macchine elettroniche, che però costituiscono il pro (e il contro, per alcuni?) di questa musica. E quindi, andando avanti nell’ascolto, dopo la ballad The game of love, arriva il tanto atteso brano Giorgio by Moroder, dove, in un monologo, il Maestro della disco afferma che il sintetizzatore rappresentò, sul finire degli anni ’60 e sul principio dei ’70, la quintessenza del sound del futuro, quale poi si è rivelato, lasciando poi spazio ad un divertissement della vecchia scuola che incorpora un pò tutto, dalla vecchia elettronica all’utilizzo di strumenti fisici, quasi a voler operare una cannibalizzazione dei primi Kraftwerk riletti attraverso una ottica mainstream, mediata dalla disco, il comun denominatore di questo lavoro, cesellando un brano senz’altro interessante ma che non fa gridare al miracolo e che soprattutto ha poco o nulla dei Daft Punk, è piuttosto un brano di Moroder. Al contrario brani come Within Instant crash, quest’ultima con alla voce Julian Casablancas, sono dei brani pop di qualità, ma non di musica elettronica, che avrebbero potuto essere composti da un qualunque ottimo musicista pop. Lose yourself to dance è invece un inno per le classifiche di musica colta e allo stesso tempo scanzonata, guidata da Pharrell, musicista che gode oggi di un grandissimo successo (e che ora, alla luce di questo disco, lo incrementerà moltissimo). Touch, con Paul Williams, fa leva sulla figura cinematografica dell’ospite per consegnare un brano fortemente teatrale, figlio del palcoscenico, che dopo una introduzione sperimentale ma non troppo sfocia nella classica disco che sta alla base di quasi tutti i brani del lavoro. Segue quindi Get lucky il primo singolo, che ripresenta Pharrell Williams alla voce, convocato qui allo scopo di sfidare i dancefloor più fighi, e che sta riuscendo magistralmente nello scopo, insistendo, in questa studio version, sulla ripetizione ossessiva, al limite delle peggiori pubblicità statunitensi, sul ritornello, maledettamente melodico e catchyBeyond non aggiunge molto ad una formula già espressa in molti altri brani, se non fosse per la reprise dell’introduzione cinematografica, stavolta figlia diretta delle presentazioni Metro Goldwin MayerMotherboard è uno dei pochissimi episodi, stavolta trattasi di una strumentale, che rimanda in parte ad alcuni brani molto melodici prodotti dal duo nell’epoca Discovery / Human after all, ma che suona, volente o nolente, più stanco, un intermezzo che lascia poi posto ai brani conclusivi, di ben altra portata, quali Fragments of time, con Todd Edwards, un brano estremamente pop e catchy così come la successiva Doin’ it right con Panda Bear. La conclusione viene invece affidata ad una delle collaborazioni più importanti e di natura più elettronica, ovvero quella di Dj Falcon per Contact, che suona come una coda che recupera ritmi antichi, ma sempre in una nuovissima ottica melodica e catchy, per sfociare poi in un suono che si alza verso un luogo imprecisato.

Sebbene occorrano molti ascolti per comprendere un disco come questo, si possono fare due considerazioni. La prima è che, come disco dei Daft Punk, questo lavoro sia completamente distruttivo di tutto quello che in passato i Nostri sono stati, e pertanto meriterebbe una bocciatura secca, la seconda è che, se non fosse un loro disco, sarebbe un prodotto piuttosto interessante. Una via di mezzo avrebbe potuto essere un side project, ma non si può avere tutto dalla vita, per cui verranno date due votazioni differenti.

Voto Daft Punk: ◆◆◇◇
Voto Disco: ◆◆◆
Label: Columbia records

lunedì 20 maggio 2013

Omosumo – Ci Proveremo A Non Farci Male EP (Recensione)

La palermitana Malintenti Dischi non delude nemmeno a questo giro, un nuovo fiore all’occhiello del suo rooster arriva per far ballare e scombussolare l’underground, sono gli Omosumo che debuttano con “Ci Proveremo A Non Farci Male”, un nevrastenico quattro tracce che prende per la collottola e ti sbatte in un dancefloor selvaggio di acid House, vetriolo basico, sinthetismi allucinati e psichedelie fragorose, salvo poi ad abbandonarti sfinito ai bordi di una esperienza liofilizzante.

Uno tsunami che vede un suono decisamente vicino ai dischi de Luomo, ricco di bassi supersonici che prendono molto dalla techno di anni fa e una voce glammy che esplode come nel migliore Studio 54 che sia esistito, un modello che arriva per inseguire gli orizzonti Ibiziani tra spigoli appunto techno e tentacoli house; dietro la sigla Omosumo si agitano l’elettrogenialità di Angelo Sicurella, la chitarra insana di Roberto Cammarata (Waines) e il quattro corde di Dimartino, una triade focosa che non molla un turn e fa impazzire loud e level al pari di una scossa, di un vacuum. Quasi un Ep in 3D, pulsazioni incessanti e tappeti elettronici densi come mercurio e a farla da padrone quelle attitudini “chirurgiche” alla Skrillex e Soulwax che favoriscono una climatica rovente, diabolicamente rovente.

Ep di nuove frontiere e speranze, la dance riverberata “Le streghe di Benevento”, lo shuffle impazzito della titletrack, le ombre Ottantiane che catturano “Tutto è un rischio” e le dissolvenze in vocoder e industrial-noise che ambientano “Costano le drum machine” sono i segnali evidenti di una rinnovata genesi tutta da scatenare e ri(collaudare), sulla quale costruirci sopra prospettive e magie in mille direzioni.

I siciliani Omosumo provano a non farsi male, ma intanto il loro raggio d’azione colpisce e stende.


Voto: 
Label: Malintenti Dischi

venerdì 17 maggio 2013

Muleta - La Peste (Recensione)

Tornano alla carica i Muleta, band veneta che aveva esordito con un Ep piuttosto corposo e che era riuscita ad attrarre l'attenzione di un certo Giorgio Canali, coinvolto in modo convinto nella produzione degli 8 pezzi che componevano La Nausea. Ora è il momento de La Peste, giusto per non farsi sfuggire nei titoli immagini di un disagio che permea anche i testi mentre non tocca granchè la musica, diretta e senza fronzoli anche se non così tanto da scomodare il termine punk: diciamo più che siamo dalle parti di un pop-grunge grezzo in cui la voce roca di Enrico si adatta alla perfezione.
I Muleta lasciano intendere da subito che il loro album non rivoluzionerà la storia della musica: i testi sono carini pur nel loro esagerato calcare su immagini che risultano assai meno poetiche di quanto vorrebbero essere (“E se hai voglia di sognare/allora crepa”, tratta da “Lisa”, è solo un esempio di come si voglia far passare in maniera esagerata il facile disfattismo per poesia), il ritmo è a tratti sostenuto, i suoni sanno graffiare e cullare alternativamente, visto che c'è spazio per qualche momento più tranquillo, come in “Lotteria”, “Moriremo Increduli” o nella conclusiva “Il Giorno In Cui”, fin troppo simile al Canali dei pezzi più tranquilli di Rojo e senza lo stesso appeal. C'è un po' di tutto, tranne la personalità.
I 10 pezzi, perlopiù brevi schegge, che compongono La Peste sono genuini, ma suonano anonimi dal primo all'ultimo. Buttarsi a capofitto nei pezzi più tirati, dall'iniziale “Meno” alla title track, non basta a dare scossoni ad un canovaccio perlopiù tendente al pop che non fa niente per lasciare il proprio marchio di fabbrica nelle orecchie dell'ascoltatore, a meno che riciclare suoni di due decenni fa possa essere considerato originale.
E' paradossalmente difficile parlare dei 10 pezzi di questo secondo episodio della carriera dei Muleta, e penso che la valutazione che se ne può fare è discordante. La Peste è tutto ciò che potete volere da un disco pronto all'uso, sicuro, pieno di frasi che possono attizzare l'animo poetico meno esigente e di suoni ed atmosfere che vi faranno sentire come a casa nel paese allegro ma non troppo del pop-rock spruzzato di disagio giovanile. Non è niente più di questo però, e non voletemene se io lo ritengo un grande difetto.

Label: Matteite/Muleta Dischi/Infecta
Voto: 


mercoledì 15 maggio 2013

The Bermudas – Bad Luck (Recensione)

E’ un terremoto inaspettato, alla faccia di tutte le scale sismografiche e dei loro grafici crestati; tornano a tuonare, dalla Liguria, i rocamboleschi The Bermudas, trio epilettico all’insegna dello scompenso cardiaco e del fiatone lunghissimo con il nuovo disco “Bad Luck”, più che un disco una iniezione di Cardiastenol direttamente in vena, dieci tracce al fulmicotone più una hidden track che si contendono a spintoni lo spazio per le interazioni più sfrontate di Rock’N’Roll, punkbilly, surfing e le sclerotiche fumigazioni del garage per non parlare delle infinite modulazioni in FM che queste tracce “violentano” facendosi ruffiane canaglie con palinsesti da occupare.


E’ come avere a che fare con la scatenata selezione di un Juke-Box Rock-Ola trasportato nel tempo odierno, una sequenza di brani che senza divagazioni o tentazioni, frenetizzano e sconvolgono i vecchi cataloghi underground con un sound senza tempo, che per molti detrattori sembrerebbe ancorato ad una mera funzione d’intrattenimento e basta, quando invece è portatore anche e soprattutto di controcultura e storia, ma senza addentrarci in disquisizioni e riferimenti, quello che vortica tra le tracce è un’energia da ballare tutta d’un fiato se si arriva alla fine; una tracklist che fa intuire una potenzialità che si rifà agli anni fine Sessanta primi Settanta, i ritmi Tarantiniani “La donna per me”, le balere lungo i bagnasciuga “Taggami”, una capatina tra le fogne Garage di una Detroit fumosa che vive nella titletrack e più in la un salto nel beat turbolento della bella “Elettrochoc”, traccia in tremolo di chitarra e diamante dell’intero lotto.


Claudio “Klaus” De Franceschi voce/chitarra, Maurilio “Kikko” Giannini batteria e Angelo “Ange” Demaria al doublebass, basso e backing vocals, sono diavoli generazionali che suonano la pulsione di più di una generazione indietro e la riportano in un epoca di grande rivalutazione, il loro non è puro esercizio di stile, ma passione elettrica e seduzione amplificata che non da tempo per respirare e men che meno modo di confondersi con altro mentre il disco ruggisce, gratta e svicola attraverso i woofer, poi con la bomba riletta di “Mexican Radio” degli americani Wall Of Voodoo e lo slanguidamento mex di “The Queen of the road” il disco va in fiamme, fiamme di vibrati e calde nostalgie di tempi persi chissà dove, e quello che rimane sul piatto è una voglia, ma che dico, una maniacale persecuzione che il repeat dovrà subire per molto, ma molto ancora.


Voto: ◆◆◆
Label: Autoproduzione 

martedì 14 maggio 2013

Mudhoney - Vanishing Point (Recensione)

Inossidabili i Mudhoney. Immuni dalle crisi che hanno attraversato gruppi con molti anni di meno sulle spalle (se si esclude l'uscita dalla band di Matt Lukin ormai dieci anni orsono) loro vanno avanti da un quarto di secolo imperterriti, sfornando album con una cadenza non certo regolare ma comunque senza pause troppo lunghe. Ed è proprio questo Vanishing Point quello che si è fatto attendere di più, uscendo dopo ben 5 anni dalla prova piuttosto scialba di The Lucky Ones, non il modo migliore per festeggiare il ventennio di attività.

Dopo così tanto tempo dopotutto è difficile stupire, soprattutto se le armi con cui sei emerso sono un suono aggressivo che nel frattempo ha smussato gli angoli (soprattutto dopo il ritorno in Sub Pop con Since We'Ve Become Translucents) ed un'energia che arrivati alla cinquantina non è certo quella degli esordi (anche se dal vivo la loro porca figura la fanno comunque). C'è quindi ancora spazio per le sfuriate quasi punk, ne sia prova la scatenata “Chardonnay” con efficace assolo dissonante compreso nel lotto, o per le punzecchiature fuzzate efficaci solo a tratti di “I Don't Remember You”, ma l'impressione è che la band si trovi più a suo agio quando i ritmi rallentano. Non che ci propinino delle ballad, o perlomeno non è il termine che userei per la tranquilla ma assolutamente coinvolgente “Sing This Song Of Joy”, ma quando rallentano il ritmo scatenato dell'iniziale “Slipping Away” per lasciar spazio ad una proto-psichedelia fra riverberi e wah e quando si lasciano guidare da un basso lineare ma trascinante nella scura “What To Do With The Neutral”...beh, forse è qui che si sentono le cose migliori. Non che una tirata che rinvanga i vecchi tempi (forse fin troppo) come “The Only Son Of The Widow Of Nain” non faccia piacere, ma per un pezzo riuscito nel suo amarcord come questo ce ne sono altri che passano nelle orecchie senza lasciare troppo il segno: “The Final Course”, a cui la carta psichedelica riesce decisamente meno rispetto alla opening track, la successiva “In This Rubber Town”, che scorre senza particolari tentennamenti ma di cui si fa apprezzare il lavoro alla batteria di Dan Peters, e “I Like It Small”, ripetitiva e scialba nonostante il tentativo di tenere alto un ritmo che però fatica a coinvolgere. I Mudhoney comunque combattono questa ennesima battaglia sonora con armi varie, e sebbene non tutto si può dire riuscito riescono a dimostrarsi più in forma di 5 anni fa.

Vanishing Point non cambierà la vita di nessuno, ma se il timore poteva essere quello di vedere aggiungere alla più longeva formazione di Seattle un capitolo evitabile alla propria carriera direi che il rischio è stato evitato. Sfiga vuole che la loro unica data di promozione dell'album sia nella per me lontana Firenze, ma se siete da quelle parti il 31 maggio i Mudhoney valgono ancora il prezzo del biglietto...e questo disco pur coi suoi difetti aiuta a dimostrarlo.

Voto: ◆◆◆◇◇
Label: Sub Pop


lunedì 13 maggio 2013

Bokassà /Maybe I’m – Paraponziponzipò (Recensione)

Ossessivo e intrigante come da deliro incontrollato, indiavolato crocicchio che vede in stupenda collisione, botto e relativo cortocircuito i campani Maybe I’m e Bokassà, una folgorazione tribale di elementi sonici che provengono da suggestioni e “attriti” internazionali, una antologia anarco/espressiva che non ha in dote nessun limite, solo libertà, freedom e libertè al cubo.

“Paraponziponzipò” è il frutto calorico di questo incontro/fusione, e le scintille vanno immediatamente in profonda accelerazione schizofrenica, il caos ordinato di un sonic bang che satura all’inizio per poi diventare irrinunciabile decoro sonoro per attimi di sfogo dall’ostinato perbenismo di una giornata modularmente sempliciotta; il motore incontrastato delle sei tracce in scaletta? un micidiale acido basico di afro-punk-jazz che scorrazza delinquentemente in ogni angolo, schizzi sonori calibrati sul giro fisso dello stupore, una necessità espressiva psicotropa e sfrontata che delizia – nel suo folle esperimento – i nostri padiglioni auricolari. Sun Ra, pizzichi di McCoy Tyner, Napoli Centrale, soffi Bantù, le overdosi di Basquiat, geometrie Zappiane, tribalità e legni etnici, percussioni nere, fiati e tanto altro che si potrebbe stilare una enciclopedia alternativa, sono le colorazioni piriche di un disco che nella sua apparente confusione, pare avere e ha una logica trasversale, la battuta e il taglio unico, inafferrabile e il vizio formidabile delle “directions in music”. Bokassà , Alexander De Large voce/batteria/percussioni, Stefano Spataro voci/chitarra, Superfreak basso, tromba, baglams, i Maybe I’m, Antonio Marino voci, batteria, Ferdinando Farro voci, chitarra, sono le menti ansiolitiche di questo supergruppo arrivato per destabilizzare la staticità e stravolgere i paesaggi morti della presunta modernità nella musica.

Uno strepitoso scambio di “battute” che la sanno lunga, Africa e l’incedere della nevrosi urbana si complimentano, si accoppiano e partoriscono entrambe stimoli, scatti, sguardi profondi e traiettorie evolutive, uno sconvolgente pastrokkio sonoro che brilla di luce propria, selvaggio e “forestico” come le cinematiche di Tarantino, i fragori funk mediterranei “Nel continente nero”, il blues murder del Mali, nero come la pece “Ci sta un popolo di negri” per arrivare a certe distrazioni asimmetriche e scordate, un free customer che ha già dato panacea ad un certo Beck durante le sue invasioni in territori jazzly, “Il più famoso è l’Hully Gully”, una manciata di minuti d’istrionismo acuto, sensibilmente acuto.

Il resto della registrazione è da scoprire, un viaggio e un’apertura mentale che non si cancella facilmente, un woodoo metafisico e oltre contemporaneo specie per chi fosse esclusivamente alla ricerca di uno sballo – oltre che legale – dalle forti emozioni senza legacci di sorta.


Voto: ◆◆◆

Label: Jestrai/Lepers Prodt./Hysm?/La Fine/Eclectic Polpo/SGR Musiche/Charity Press

venerdì 10 maggio 2013

New Adventures In Lo-Fi – Take Took Taken Ep (Recensione)

Nel 1994 avevo 18 anni, una bella età per godersi la musica, non c'è che dire- Assimilare generi musicali e renderli parte della tua vita, come concetto e come impostazione di un modo di essere e di vivere la musica. Non era molto difficile trovare il proprio spazio nel '94. Video Music passava anche robaccia, certo, ma ti imbattevi spesso e volentieri in roba di grandissima qualità, quasi sempre proveniente dall' America, che fosse indie, “alternative”, come lo si definiva allora (o come lo si dovrebbe definire oggi visto la brutta fine che ha fatto il termine indie) o “grunge”, quasi sempre ti sparavi qualcosa di figo. Ecco se sei nato nel 1976 e hai 18 anni nel 1994 è facile diventare un finissimo intenditore di musica, è troppo facile, me ne rendo conto.

Di certo più difficile se invece sei nato tra alla metà degli anni 80 e 15 anni li hai raggiunti nel 2000, perchè ti sei ritrovato adolescente in un periodo musicalmente caotico e in evoluzione costante, quindi, o hai un fratello più grande figo, o hai un talento per la musica bella.
Non so se Enrico Viarengo e i suoi compagni di viaggio dei New Adventures In Lo-Fi abbiano un fratello maggiore figo, ma di certo hanno talento per la musica bella, quella che girava nei primi anni '90.

Appena inizia “Naked”, primo pezzo dell'EP dei torinesi, capisci benissimo i loro ascolti; cogli subito la loro crescita a pane e “alternative”. Ci arrivi subito, perchè quelle chitarre appartengono ai Texas Is The Reason e ti trafiggono il cuore, come succedeva tanti anni fa, arpeggi agrodolci che si sciolgono in ritornelli di delizioso amarcord.

Something Missing” nella stessa maniera si adagia su canoni già scritti, ma così ben mischiati da risultare una novità da abbracciare; al suo interno senti tutto: dall'apertura alla Swervedriver, agli arpeggi tristi dei già citati Texas fino ai ritornelli a metà strada tra i Weezer più intimisti e i Teenage Fanclub.

"Tomboy", il terzo pezzo, è una delicata ballata tra chitarra e voce, un po' troppo sentita e che non brilla, a differenza degli altri pezzi, a livello di scrittura.
Livelli che si alzano subito con il pezzo di chiusura “Taken” con una chitarra Neil Younghiana le cui corde ti stringono il cuore e, ancora, la profonda dolcezza di cui erano capaci i Teenage Fanclub. Deliziosa davvero.

Si sente aria di una nuova primavera indie '90 in questa orrenda e disagiata stagione del 2013. Un Ep bello, per cuori forti, i deboli ne potrebbero morire di gioia all'istante, pieno di riferimenti, come detto, evidentissimi, ma trattati con assoluta personalità e perizia.

Una bicicletta, la maglietta dei R.E.M. e il sole. Come nella primavera del 1994.


Voto: ◆◆◆◇◇
Label: Autoproduzione

giovedì 9 maggio 2013

VictorZeta e i Fiori Blu – Dans la Rève (Recensione)

Musica che non si rassegna di essere solo musica come siamo soliti afferrare, altro che prendersi il tempo per inghiottire un secondo d’ossigeno, questa “compagnia” sonora campana, VictorZeta e i Fiori Blu con il disco d’esordio Dans La Rève, danno l’idea precisa di una band anfetaminica che non si accontenta di fare il solito giro a tracklist, la solita giostrina registrata che può piacere o meno, ma applicano all’ascolto accordi, ritmi, stili e approdi con l’audacia di un compattatore, punteggiano melodie guizzanti, con una precisione invidiabile, si divertono a sparigliare i classicismi del folk, rock, cantautorato, i respiri Balcanici e le convulsioni del rap, letteratura e chi più ne ha più ne metta per riempire un ascolto divertito e a suo modo “stravolto”.

Perfettamente non allineati con le soluzioni modaiole o perlomeno di quella tendenza latentemente trendy, la formazione campana sciorina ben tredici brani per una espressione mixata di gran lusso, una forza integrante e colorata che sembra un juke-box personalizzato dove attingere musica per ogni stato d’animo che l’ascoltatore passa in quel dato momento, un dispenser sonico e lirico che si fa stile e stilosità nel contempo; il senso teatrale si respira fino al millimetro di ogni movimento, la romanticità di una scaletta che azzarda vincendo al primo turn è forte e, anche se la formula base non è che sia prettamente inno all’innovazione, conferma talento nell’imbastire una tutto sommata opera del “gesto sonoro” da tenere inchiodata nella memoria.

Parole sagge e parole volanti, suoni e marachelle poetiche sono la cifra interpretativa, Mediterraneo e venti oltre cortina danzano, gioiscono, pensano e zampettano in un palcoscenico virtuale dove gli arrangiamenti ed il sangue vivo marciano su una via preferenziale, un disco agrodolce che è passione e vita vera al quadrato; tra le chicche da cercare in questo baule strapieno di viaggi e storie l’amarezza in levare che ciondola in “Nuove strade”, la mosca che ronza dispettosa nello ska-folk di “Sciami”, il senso Tarantiniano d’un tango languido “Lascia che mi lasci andare”, l’ombra sausalita casalinga e curinaria di “Zacapa” come lo spiritello di Gaber che si muove sopra il ronzino blues della rivisitazione di “Shampoo” del grande ed indimenticabile artista milanese, poi tutto quello che gravita oltre è una sorpresa per dilatare le trombe d’Eustachio.

Ottima prima volta per i campani, e la conferma – se mai ce ne fosse bisogno - di una ulteriore bella pagina di nuovo cantautorato.

Voto: ◆◆◆◇◇
Label: Autoproduzione

martedì 7 maggio 2013

Voina Hen - Finta Di Niente Ep (Recensione)

Ho cominciato ad ascoltare questi 4 pezzi dei Voina Hen senza sapere niente di loro, né la provenienza né il genere né il numero di scarpe. Mi fa specie quindi, dopo una buona dose di ascolti, vedere l'etichetta post-grunge associata al loro nome, ben più dell'attitudine punk che altrettanto viene loro cucita addosso nei comunicati stampa e che ha un minimo senso in alcuni punti dell' Ep Finta Di Niente, secondo lavoro della band abruzzese (ora lo so di dove sono!) dopo un omonimo album. Detto che 4 brani sono pochi per poter giudicare un gruppo e che la definizione post-grunge io l'ho sempre letta come commento denigratorio c'è da dire che di nineties i Voina Hen hanno ben poco, al massimo qualche riflesso del riflesso, tipo avere atmosfere che in qualche punto rimandano ai Verdena più riflessivi di inizio carriera.

Non è il caso però di “Algeria”, il brano con cui si apre il disco. Un ritmo tutto sommato abbastanza contenuto e senza sobbalzi viene nobilitato da un cantato nervoso e da una chitarra dai saltuari accenni indie, e pur non essendo un capolavoro riesce ad incuriosire e a mantenere alta l'attenzione fino al passaggio alle atmosfere più rarefatte (ma senza esagerare) di “Le Pietre”. Il ritmo rallenta ancora un poco, la voce resta nervosa ma i ritornelli si fanno veicolo di emozioni nostalgiche, e la cifra stilistica se proprio si deve fare un paragone si può accomunare senza andare lontani né cronologicamente né geograficamente ad alcune cose dei Cosmetic. Di tutt'altra pasta la title track, veloce, potente e con qualche influsso post-hardcore che dà un ottimo sapore al risultato finale: sicuramente il brano più azzeccato, utile anche a giustificare un minimo l'attitudine punk sbandierata fieramente. “Summer On A Solitary Beach” del maestro Battiato chiude invece con atmosfere nuovamente nostalgiche, anche se le emozioni qui vengono veicolate in maniera cupa, complice un basso più presente ed arpeggi di chitarra efficaci da disagio contenuto.

Un ascolto piacevole questi 15 minuti scarsi passati in compagnia dei Voina Hen, troppo pochi però per poter dare un giudizio definitivo su una band comunque emotivamente interessante. La vena più tranquilla funziona meglio in “Le Pietre” che nella traccia conclusiva, ed il rischio per il futuro è quello di non riuscire a veicolare le emozioni alla stessa maniera in cui ci riescono qui: sarà utile sicuramente insistere nel solco nervoso di “Finta Di Niente”, l'alternanza di atmosfere è un punto a favore di cui già si può fregiare questo piccolo e veloce assaggio, oltretutto in free download qui.

Voto: ◆◆◆◇◇

Label: Autoproduzione


lunedì 6 maggio 2013

Crowding Out Effect – Young (Recensione)

Dopo aver suonato in lungo e in largo, la band dei Crowding Out Effect arriva al secondo Ep di carriera, Young, un quattro tracce che si tuffa senza indugio nel brit-pop degli anni Zero, ma non con quella spavalderia che è solita assaltare gli estimi brufolosi di qualche esuberante e finto spensierata band, ma con quell’accortezza mid-professionale che trasogna spettri cromatici di gamma, una di quelle formazioni che ha un impatto uditivo ricco di dolce tensione, che trova lo smalto giusto per brillare – al suo passaggio – tra le fantasmagorie di Franz Ferdinand e Arctic Monkeys e di tirarne fuori un midollo personalissimo come cristo comanda.

Tante sono le suggestioni che questo piccolo lavoro sbatte all’orecchio, tante le indiscutibili sincerità sonore che esprime in un contesto di pulsioni elettriche, ritmi declamati e indie mutante, tutto si lascia andare a brani dove la poetica abbraccia volentieri e con gusto l’urgenza scandita da una gioventù sonica – per adoperare una considerazione già fatta – che reclama accelerazioni e melodie “altre”, fintanto che una estetica si compone, regalandoci una bella riconferma ed una orecchiabilità avvolgente come poche; quattro tracce più una ghost Wait acoustic – nella quale trasale tutto il patema d’anima di un Thom Yorke tra le nevi Vedderiane di Into The Wild - che rubano tutta la nostra immaginazione, brani di hooks e strafottenza radiofonica che sbomballano una tracklist agitata ed immediata.

Quello che è certo che gli COE sembrano proprio una quintessenza di un profilo musicale da associare per momenti in cui si cerca carica, energia e un mordente gentile di bello, un lasciare intendere che rivela contorni caratterizzanti ed elettrici esuberanti e ben collocati nelle coordinate inglesi “Young” tra la scapigliatura dello scatto nervoso “Alone”, dentro l’epicità denudata dai fronzoli pop “Keep loving”o nei meandri del barocchismo Sixsteen che elogia “Broom”, poche cose per un “molto” da certificare e consigliare, un’evoluzione sonora di tutto rispetto, e che addirittura potrebbe recidere le radici underground per un qualcosa di molto più in alto, ma molto più in alto. Da far sposare con qualsiasi stereo!


Voto: ◆◆◆◆◆
Label: Autoproduzione

venerdì 3 maggio 2013

Decana - S/t (Recensione)

Se il progetto Decana sia la prosecuzione delle Diva Scarlet o solo un estemporanea avventura fuori dalla band principale delle fondatrici Sarah Fornito (voce e chitarra) e Cecilia Bernardi (chitarra) solo il tempo saprà dircelo, visto che una ricerca approfondita su internient non ha fugato i miei dubbi. Ciò che importa è che, forti di una nuova sezione ritmica (Enrico Liverani alla batteria e Daniela Caschetto al basso) e della produzione di Umberto Maria Giardini (il fu-Moltheni è anche ospite d'onore in “Come Mi Vuoi Tu”) le due ragazze si lanciano in quest'avventura sonora dai toni dichiaratamente Nineties ma veicolati con intenzioni da rock d'autore.

Che l'aria che tira sia piuttosto naif lo si capisce già dall'apripista “Una Promessa Inattesa”: incedere lento, distorsioni tenute a freno, incroci chitarristici da tipico alternative rock italiano anni 90 (pensate ai Marlene più leggeri, giusto per dare una direzione) e voce leggiadra ad appoggiarsi su un brano malinconico che inizia e finisce senza tentennamenti. Un incedere quello della traccia d'apertura che si può bene o male applicare all'intero disco, visto che le atmosfere rimangono bene o male le stesse per tutti i 9 pezzi e di scossoni non se ne avvertono quasi mai. Certo, “Domani Cambio Idea” è efficace nel suo incedere ritmato ben associato a ritornelli quasi esclusivamente vocali prima di un finale lievemente più pesante della media, e “Nel Sesso Si E' Tutti Uguali E Tutti Diversi” funziona come valvola di sfogo della vena più rock (ed esclusivamente strumentale) della band, ma che le atmosfere siano rarefatte come nella leggiadria acustica e sviolinata di “Niente Da Dire” o si facciano più grintose grazie al basso martellante di “Come In Un Brutto Film” l'album scorre irrisolto fra la voglia di essere più raffinato di quello che è ed il tentativo di trasmettere un'energia che nei pezzi più vispi manca del contributo alla causa della vocalist Sarah, veramente efficace in quanto a personalità quasi solo in “Tutto Cambia” e nella conclusiva “Corro”, pezzo che sa di disagio Verdeniano ma riesce comunque a farsi apprezzare come conclusione del percorso sonoro imbastito lungo una mezz'oretta scarsa dalle Decana.

L'omonimo debutto della band capitanata dalle due Diva Scarlet non è certo un brutto album, ma manca di personalità. Si lascia ascoltare ma non ti fa sussultare quasi mai, lascia un vago senso di malinconia ma senza evocare immagini che riescano a stamparti in testa le note: un disco ben rifinito, fatto con cura, ma che rischia di passare anonimamente nelle orecchie degli ascoltatori.

Voto: ◆◆◆◇◇
Label: Decana

giovedì 2 maggio 2013

Sadside Project – Winter Whales War (Recensione)

Mi sono imbattuta nei Sadside Project oltre un anno fa, trascinata a un concerto in cui la presenza di Roberta Sammarelli dei Verdena veniva spacciata come unica attrattiva. Ma, sebbene la folla postadolescenziale rivolgesse tutta la propria devozione alla più nota bassista, il garage-blues insieme robusto e sognante del duo romano si era saputo imporre alle mie ciniche orecchie come sorprendentemente convincente.

Mi aggrego quindi senza esitazione alla ciurma scomposta pronta a salpare nel nuovo lavoro Winter Whales War, assoldando tra i vari compari occasionali la stessa Sammarelli, Adriano Viterbini dei Bud Spencer Blues Explosion, Alberto Mariotti e Wassilij Kropotkin dei King of the Opera. Solcando distanze atlantiche a vele spiegate, seguono la rotta di un blue-eyed & b scomposto e chiassoso, approdando a più inconsueti lidi con un folk agrodolce, pervaso da nervature di psichedelia discreta e mai ridondante.

L’arrembaggio inizia spavaldo con il fragore indolente di "Same Old Story", che espone da subito caparbia la fisionomia sonora di questo turbolento e frastornato diario di bordo: la dolcezza impolverata del cantato è incastonata e quasi occlusa tra il volitivo e risoluto pestare della batteria e il compatto clangore chitarristico. Ma la corrente si placa all’istante e si veleggia placidi sospinti dalla brezza di "My Favorite Color", che soffia sospesa tra noncuranza dylaniana e sgangherato incalzare da bettola sudicia; il piglio ritmico si dissolve nel nostalgico doo-wop di "1959 (The Last Prom)", inatteso affresco teen, perfetto per smarrirsi in interminabili baci sulla porta di casa.

La navigazione accelera appena nel blues rurale e melanconico di "This Halloween Is Over", che deraglia in un vociare di marinai sbronzi, preludio all’energico blocco centrale: dall’irresistibile, delirante garage di "Edward Teach Also Known As Blackbird", costeggiando approdi segnati da un sordido colare notturno "(Nothing To Lose Blues)" o da sbilenche esaltazioni contaminate da malcelata inerzia "(Hold Fast)", sino a raggiungere l’attracco confortevole del singolo "Molly", evanescente serenata increspata di sature distorsioni.
Il porto di destinazione è edificato tra il bizzarro e trasognato folk dell’acustica "Sloop John B", che trasforma l’originaria, sfavillante spiaggia dei Beach Boys in un litorale solitario, e il cullare della conclusiva title-track: l’evidenza dell’arpeggio, che traccia intrecci secondo la lezione di Nick Drake, è la lira ininterrotta che guida la monodia recitativa nel disperdere i versi di Walt Whitman, donati come eco ininterrotta al lontano canto di sirene che replica in lontananza.

Voto: ◆◆◆◇◇
Bomba Dischi/Audioglobe/Rough Trade

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